venerdì, dicembre 16, 2016

Per amore di Iokanaan
Bujeu-Brian d’Ařaxe

Cipressi, acacie, cedri, mandorli e ginestre per la nuova ninfa, tutt’intorno. E viti e olivi, palme e il fico immortale. Più giù, balsamo, issopo e cinnamomo odoroso e, a far da raccordo con il cielo, la liana vitalba che sa di biancospino. E funghi turgidi dov’è più umido, piccoli seni pronti, capezzoli eretti sotto le foglie cadute. Era bello sentirsi quel maschio addosso squassarle le visceri e il seno, come sempre, ma questa volta c’era un pensiero, un segreto, una decisione. L’inganno meditato. Adesso sì, pensò, ora, adesso, una figlia mia, solo mia, rubando all’ignaro il seme che innesca - a nient’altro serve un uomo. Nemmeno ho bisogno del suo pane perché so guadagnarlo da me, e anche di più del pane - lo dimostrerò. Fonderò la mia dinastia. Dinastia di lupe, matriarche, com’è il fondamento vero di Israele. Il bosco udì a lungo gli ansimi della coppia finché Giuditta aderì saldamente alla parete generativa, poi tutto tacque cedendo al consueto frinire e a tutti i fruscii, frulli, ronzii, cigolii, lo stormire incessante delle fronde, la pigna che cade chissà dove e l’acqua casta che gorgoglia lontano.

Non parlare, non chiedere, taci. Questo buio antico, questo dolore indicibile vogliono chiusura e silenzio. Non c’è racconto, indiscrezione, non sospetto, né ora né mai. Nemmeno il fatto: al più, pensieri, emozioni, nuvole di sensazioni come turbini di vento sulle colline aride e assolate; al più, brusii di preghiera riservata, mulinelli d’aria elettrica che si scarica fuori, oltre i monti violetti che chiudono lo sguardo. Non parole. Non azioni. Solo chiusura e solo silenzio: nemmeno domande senza risposta. Come domandare se non puoi immaginare? Il profondo vive celato in labbra chiuse, che non affermano né negano perché a serrar le labbra i fatti svaniscono, nemmeno sussistono né mai sono avvenuti. Perché è la parola che crea la cosa. Muta Giuditta taceva e non raccontava e sul silenzio e sul segreto aveva costruito la sua vita. Non l‘oltraggio e nemmeno la sua mancanza. Se qualcosa era accaduto, non c’era né mai era stato perché nessuno doveva sapere. Reticenza, non menzogna. Il tempo le scivolava oleoso intorno e senza attrito sempre uguale a se stesso dal domani allo ieri e poi ancora perché il presente, l’attimo, quello eterno, dura da sempre e ogni istante è quell’istante, quell’istante che crea il mondo, inamovibile come una colpa, uno stupro, un nulla, un’assenza, una cosa o una parola, inamovibili come i massi infuocati, abbruciati dal sole, della muraglia antica che rinserra la città. Saldi nella memoria come fosse ieri. Non ci fu un prima; non ci fu un dopo: solo il tempo rimase, silente musica infinita, eterno e identico a se stesso, immobile. Perciò non domandare. Rispetta il silenzio. Non saprai mai. Chiusa la città; chiusa Giuditta; chiuso il segreto. Ermetico, come il luto degli alchimisti.

Riposa la città come una femmina addormentata tra le coltri morbide che sanno di pelle liscia e profumata, distesa sul cocuzzolo che chiude la strada per Samaria, alta sulle fertili piane di Esdrelon e Dotain fino a Jezrel e Megiddo al lontano orizzonte. Si destano Giuditta e la città prima della prima alba mendace, rinserrate in se stesse, avvoltolate calde di sonno come una serpe, al brusco risveglio della pianura invasa, fitta di clamore di soldati e lance dritte al cielo, innumerevoli come le spighe d’estate. Assedio della donna e della città. Uomini in armi giù nella valle premono addosso bestiali, umidi di desiderio sotto le mura, al clangore delle spade sugli scudi a invocare, pretendere resa, abbandono e rassegnazione, il diritto alla violenza, allo stupro vittorioso e sognano essi le mura crollate, la breccia aperta, oscena come cosce spalancate per la quale ficcarsi come una marea di topi affamati al suono delle tube trionfanti, i membri eretti pronti ad azzannare, straziare. Straziare le loro carni molli e innocenti. E poi andar via, oltre, appesantiti dal bottino e alleggeriti della foia soddisfatta, verso Samaria ubertosa, ricca di mille frutti e d’olio e di vino e, dietro si sé, solo rovine e carogne al sole, a ricominciare. Hanno predisposto il ricatto mortale: chiuso le sorgenti, deviato i corsi d’acqua sui quali sorge la città, ché inaridisca la madre liquida che scorre e nutre, ché sia presa per sete, costretta, avvinta dalle catene che segnano la pelle arsa sulla carne rinsecchita sotto il sole implacabile.
La sete irrita e non appaga, nutrisce e non estingue. Il ferro almen sollecito ne uccida, e non la sete con sì lungo morir.
Sognano i soldati quella terrazza, la sua, la più alta, visibile da lontano come un emblema osceno e arrogante, che scorgono fluttuare di tende bianche nell’azzurro del cielo come spuma leggera sul mare lontano, erte, libere e provocanti sulla casa più alta dove riposa la femmina agognata, la vedova casta, la vergine indicibile, e la terrazza sognano e il giardino pensile rigoglioso ricco d’ombra e di quiete, che spiano da lontano dalla pianura infuocata, come un invito a soddisfar  la sete. Li vede, li sente. Se li sente addosso. Sopra i nitriti e i gridi marziali e le cadenze delle centurie serrate in corsa e la polvere che s’alza nel cielo, odono le schiere i canti sottili che promanano da lassù come un richiamo di sirena nuda distesa sotto il mezzodì, e odono l’invito d’amore che vibra la cetra al vento casto del mattino e han nel palato gli effluvi profumati che accendono la notte di mille fiammelle il desiderio e cola la saliva ai lati delle bocche affamate e delle zanne dei denti. Loro, Giuditta e la città. La dea assediata e la città del rifugio. Betulia, la città che non esiste.

Mi vedono bella. Lo capisco dagli occhi che mi spogliano oltre il velo - me, la giovane vedova ricca - dagli sguardi che bruciano e scrutano l’invisibile sotto il cilicio tessuto di ispida capra che mi preserva e mi nasconde e rivela come il novilunio la notte e, come le ali dei Serafini, il volto assassino e i piedi impudichi. Non abito questo corpo di desideri idolatri, che indosso oltraggiosa e nascondo pietosa. Non sono qui. Bella come un altare sacro e, come un altare, pura,
giardino chiuso, fontana sigillata,
eppure semino mio malgrado perle di desiderio. Quelle perle che non avranno mai, come non avranno la mia ricchezza. Io sono la mia ricchezza. Cosa c’è negli occhi, uomini, o nei sensi perennemente infoiati che mi obbliga a celarmi? Nient’altro che un oggetto per voi, passivo e inerte, pura forma bramata, oro e gioielli, ma io, io sono forma pura, e mistero, la sposa di Dio, che si sottrae come il suo sposo tra le nubi del Sinai il giorno che ci diede le Sue leggi. E tu Manasse, “motivo di oblio”, mio sposo, sei nulla anche nel nome; il tuo destino colpevole mi travolse innocente. Che hai fatto contro Dio, Manasse, che ti trattò come un reo che non merita pietà e travolse me la Sua punizione? Non ti dimentico né dimentico l’oltraggio anche se sei l’oblio ma ti confondo e confronto - in te tutte le colpe dei Manasse obliati, perduti, nome di disgrazia: il figlio di Asenet l’egiziana che non seppe mantenere il suo diritto a essere il primo dei figli di Giuseppe, il re di Giuda che sacrificò ad altri invece che a Chi doveva e ne fu distrutto e sei coloro che cercarono le loro donne al di fuori del popolo di Israele e ne furono puniti. E sei anche la decima tribù (tu, che non generasti), la tribù perduta... Sei tutti costoro e chi preferì morire un meriggio assolato a mietere l’orzo grondando sudore come uno schiavo invece di secernere il nettare d’onore per il sacrificio.
Ho aperto allora al mio diletto, ma il mio diletto già se n'era andato, era scomparso... Dov’è andato il tuo diletto? Il mio diletto era sceso nel suo giardino... Io venni meno, per la sua scomparsa. L'ho cercato, ma non l'ho trovato, l'ho chiamato, ma non m'ha risposto.
Sei colui che ha perduto e che si è perduto, Manasse, fuggito come una lepre nei campi inseguita dai cani, che muore e scompare perché non c’è, non c’è mai stato, come la mia città! Sei morto e, come ai colpevoli, non ti si è svelata l’essenza divina che si cela nelle pieghe delle vesti che velano l’indicibile per onorare l’altare cui eri dedicato, arroventare lentamente il forno dove cuocere il pane, al calor bianco della generazione, istante dopo istante. Manasse, mio sposo, povera cosa. Mi hai fatto vedova, non altro. E ricca, che suona scandalo ai pezzenti della città perché sono donna. Sono colpevole, madre, perché non ho generato. Non le femmine, lupe matriarche, come volevi, per la tua dinastia. Non ho generato affatto. A che una donna senza prole? Un Dio geloso non lo ha voluto. Se mi volevi, Dio, perché darmi a Manasse? A che serve, a chi, ora, la mia bellezza? Sono un’opera incompleta. Un disegno nella polvere, cancellato dai calzari del prossimo viandante. L’ottavo giorno della creazione, il giorno della distruzione. A che la mia ricchezza? A che il mio potere, sugli uomini e sulle cose? Sabbia che turbina nel deserto. Ancora e sempre, come una condanna,
sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l'amato del mio cuore; l'ho cercato, ma non l'ho trovato.
Sono io lo scandalo, l’onta di mia madre delusa e sprezzante: e mi nascondo nel silenzio.
Mi desiderava come un animale e io avevo sedici anni, avevo vent’anni. Lo evitavo, andavo nei boschi. Fuggivo a cavallo e non gli permisi mai di raggiungermi, perché non mi fidavo. I boschi mi davano una grande angoscia, ma io avevo paura di lui. Ho sempre trovato il mio piacere nell’angoscia: e fino alla sua morte, mi sono ogni giorno di più ammalata. Avevo la certezza di essere disperatamente viziosa, e non ero che un bambina, perché il desiderio ardeva in me, mostruosamente. Sensualità senza disordine e nondimeno senza misura. È la voluttà tutta la mia vita. Non ho mai scelto: so che, priva di voluttà, io non potrei esistere, che, privata di quell’attesa, la mia vita non avrebbe più ragion d’essere. Credo di aver amato solo nei boschi. Non amavo i boschi, non amavo nulla. Non amavo me stessa, ma c’era in me una smisurata forza d’amore. Credo di amare solo l’amore; ma, nell’amore, l’angoscia di amare non l’ho provata che nei boschi o il giorno in cui la morte...
E nessuno saprà, mai! Ma sono viva e, a modo mio, matriarca come un’ape regina. La mia ricchezza me lo concede - e la mia bellezza, la mia giovinezza. Mia figlia è la città, tutta intera, il mio alveare. Mostrerò al mondo, alla città, la mia città, alle mie figlie, quel che vale e a che serve questa donna sola, triste, vedova, monca, colpevole e spezzata e senza prole; non per voi, femmine felici come vacche nelle stalle calde di paglia ed escrementi ma per voi altre, voi come me, sole, tristi, vedove e vergini libere, indomite e assassine! Darò in ostaggio e pagamento il mio corpo per una volta fonte di delizia e poi ti ucciderò, con voluttà, Manasse!

  1. Tutto nacque almeno da Abramo e proseguì con Isacco e poi Giacobbe, “il soppiantatore” perché tentò invano di impedire al gemello di nascere per primo, trattenendolo per il tallone e poi si finse chi non era per un credito di lenticchie, come sappiamo.
  2. E Giacobbe fu chiamato Israele perché “uomo di Rachele”, matriarca ed eponima.
  3. E la matriarca eponima, che non poteva figliare, partorì Giuseppe il sognatore e Beniamino; Bila, serva di Rachele, Dan e Neftali; Zilpa, serva di Lia, Gad e Aser ma Lia, prima moglie per l’inganno di Labano e sorella della matriarca, ne generò sette: Ruben che si eccitò per Bila, Simeone e Levi che fecero la strage senza permesso, Giuda, Issacar, Zabulon che fanno dodici e una figlia, Dina.
  4. E Dina piacque troppo a Sichem il cananeo che la violentò.
  5. E Sichem fu per questo massacrato senza permesso con tutti i suoi da Levi e Simeone, che finsero di acconsentire a nozze riparatrici purché i Cananei adottassero la circoncisione ma li assalirono a tradimento quando questi non potevano difendersi perché debilitati dall’operazione.
  6. E la tribù scomparve e donne e animali e idoli cananei furono razziati e arricchirono il popolo di Giacobbe.
  7. E per questo Giacobbe diseredò Levi e Simeone che fecero la strage senza permesso, lasciandoli senza il becco di uno iugero né di un mezzo piede di tavola di terra di Israele.
  8. E Dina partorì Asenet, “dimora di Neth” vergine dea progenitrice, che Simeone, che aveva sposato Dina, non sopportava perché figliastra e nipote nata dallo stupro di un cananeo, per cui la espose nel bosco affinché morisse (oppure in una cesta sul fiume come Mosè).
  9. E Asenet fu salvata dall’angelo Michele e portata in Egitto dove fu adottata da Putifarre sacerdote a Eliopoli che era senza figli e padrone di Giuseppe il sognatore, per averlo acquistato dai fratelli.
  10. E il faraone diede Asenet in sposa a Giuseppe per ricompensa dopo le calunnie della padrona e dei sette anni di carestia.
  11. E Asenet, vergine che spregiava gli uomini, fu toccata dall’angelo senza nome con un favo d’api e si riconobbe ebrea e non spregiò lo zio Giuseppe e partorì Efraim e Manasse (quello dell’oblio nel mome).
  12. E il figlio del faraone, innamorato di Asenet, tentò di rapirla, persuadendo Dan e Gad a uccidere il fratellastro Giuseppe ma il fratello Beniamino sventò il tentativo e il figlio del faraone venne ucciso.
Giuditta discendeva da Simeone.

Chi è costei che sorge come l'aurora, bella come la luna, fulgida come il sole, terribile come schiere a vessilli spiegati?
Miete la morte con la sua falce il vento con brividi che risuonano nel profondo. Il silenzio - il nulla della parola - la circonda, le si avvolge intorno la bellezza come Nahash l’edenico, il tentatore in spire di fumo. Occhi muti di stupore osservano collane, bracciali, cavigliere, occhi bistrati come luce che brilla in fondo al nero del caos, e piedi osceni dipinti nei sandali nudi, unta d’olio odoroso e resine rare ancheggiare in mulinelli di vento come la musica acre del nulla che spira dal deserto, accordi di desiderio, quel profumo indicibile che infuoca la gola e asfissia il respiro, che attira come il vuoto, Giuditta, come la morte che affascina e tira giù capofitto o s’apre ella come un gorgo inaspettato nelle acque tranquille e la serpe dello sguardo ti trascina nell’abisso delle sue labbra infuocate e ti vedi là, in fondo, accasciato sul fondo, e quel nulla, quell’arcano, ti tenta come una rivelazione disperata, ti spinge irresistibile, inevitabile divina morte verso di lei:
ondeggiando a destra e sinistra la sposa si avvicina, in gioielli sacri e vestimenti per festa.
È tua la festa, Giuditta, la tua festa, la festa di te. Il cuore stesso del mistero, inconoscibile, avvenente e inavvicinabile a passo di danza, traente, intangibile Papessa,
cavalcava un cherubino e volava, si librava sulle ali del vento. Si avvolgeva di tenebre come di velo, acque oscure e dense nubi la coprivano. Davanti al suo fulgore si dissipavano le nubi con grandine e carboni ardenti.
Così  
           ella si va, sentendosi laudare...

Ed era già un fiore di diciotto, tanto a lungo si era preservata e alta, come Sara e bella, come Rebecca e dolce, come Rachele e questa era Asenet. Non sembrava egiziana; qualche malevolo la pensava ebrea. Ed eccitava gli uomini e per questo si celava nella torre con sette vergini di pari età e giovinezza, il suo popolo, le sue sorelle, belle come le sette stelle del cielo e diede a ciascuna una stanza e ne aveva tre per sé: la prima di pietre rosse al pavimento e tutti i simulacri degli dèi alle pareti in pietre e metalli preziosi ai quali ogni giorno offriva sacrifici ed era tutto d’oro il soffitto, la seconda di ornamenti e stoffe preziose e la terza di tutte le meraviglie del mondo. E c’erano tre finestre ad est, a sud e nord e il letto d’oro sotto quella orientale con coltri di porpora intessute d’oro e d’azzurro, sì che il sole la svegliasse con la luce che innonda dopo l’alba sincera. E c’era intorno un giardino di piante di frutti meravigliosi e una fontana d’acqua sorgiva e una cisterna ed era chiuso il tutto da un alto muro di pietre quadre con quattro porte ferrate, guardata ciascuna da diciotto giovani armati a preservarne la purezza perché nessuna di loro aveva conosciuto uomo né bambino maschio e così doveva continuare. E venne Giuseppe, governatore di tutto l’Egitto, a Eliopoli da Putifarre sacerdote di On ma Asenet non volle conoscerlo perché non era del suo popolo e si rinchiuse nella torre ma di là lo scorse e si pentì perché vide che la luce di Dio era sopra di lui. E Giuseppe sedeva discosto da Putifarre e dai suoi per non peccare di mescolanza contro il suo Dio e vide Asenet che lo guardava dalla finestra della torre tra il fluttuare di bianchi tendaggi e chiese a Putifarre di allontanare quella straniera dal suo sguardo perché ricordava le parole di Giacobbe:
«Guardati, figlio, dalle donne straniere e non avere commercio con loro perché sono rovina e distruzione».
Sorrise Putifarre e rispose:
«Mio Signore, la donna che hai visto lassù non è straniera ma mia figlia, una vergine che detesta gli uomini e che nessun uomo mai ha visto prima, tranne te adesso ma se lo vuoi verrà e ti parlerà perché ella è tua sorella».
Si rallegrò Giuseppe in cuor suo perché aveva udito che ella spregiava gli uomini poiché soffriva egli stesso di essere perennemente concupito a causa della sua bellezza e prestanza e disse:
«Allora falla venire perché ella è mia sorella e io sarò suo fratello».
Ed ella venne e così Putifarre la introdusse:
«Accogli o figlia il tuo fratello perché anch’egli è vergine come te e detesta le donne straniere come tu gli uomini che non sono del tuo popolo. Avvicinati e bacia tuo fratello».
Le pose Giuseppe una mano sul seno per tenerla discosta e così commentò:
«Non è lecito a chi venera Dio e a chi con le sue labbra Lo benedice e mangia e beve i Suoi cibi benedetti, baciare una donna che con le sue labbra benedice idoli morti e muti, mangia dalla loro tavola il pane dell’angoscia, liba bevande dalla tazza del tradimento e viene unta con l'unzione della distruzione, così come non è lecito a una donna che venera Dio baciare un uomo che non è del suo popolo perché ciò è abominio agli occhi di Dio».
E poiché Asenet soffriva e gridava forte e i suoi occhi erano colmi di lacrime, Giuseppe invocò su di lei la benedizione di Dio tenendole la mano sul capo e Asenet ne fu felice e corse nella sua stanza gettandosi sul letto e lo spirito di Dio era sopra lei e a lungo pianse di gioia e, insieme, si doleva di aver offeso e respinto e misconosciuto quel fratello così colmo di luce divina, e aver così offeso Dio offendendone il figlio, per cui si chiuse dall’interno, respinse le ancelle in pena per lei, gettò abiti e monili e idoli dorati dalla finestra, si cosparse di cenere e vestì il cilicio tessuto di ispida capra e fu così per sette giorni finché la cenere sul pavimento divenne fanghiglia perché intrisa delle sue lacrime. E l’ottavo giorno la stella del mattino sorse alta nel cielo e Asenet fu ricolma della sua luce e seppe così che Dio l’aveva perdonata. E si gettò a terra riconoscente quando udì una voce che la chiamava e vide un uomo meraviglioso che pareva disceso dal cielo che così le parlò con divina bocca di miele:
«Sono principe della casa del Signore e capitano del suo esercito. Thalità kumi - disse in aramaico - risorgi, fanciulla. E ascoltami».
E Asenet vide che egli era in tutto simile a Giuseppe, vestito di candida stola e portava in mano uno scettro e in capo una corona. Il suo viso era luminoso, gli occhi raggi di sole e i capelli fiamme di fuoco.
«Dio ha visto il tuo tormento e ti riconosce come Sua figlia e accoglie presso di Sé. Gioisci e rinasci a nuova vita. Spogliati dunque della tunica nera e del cilicio tessuto di ispida capra, lavati via la cenere e avvinci i fianchi e il seno con la doppia cintura della verginità. E del pari nuda e svelata sia la testa perché sei una vergine nel corpo ma il tuo capo è quello di un uomo. Dio ti ha dato sposa a Giuseppe e ha dato lui a te come sposo. E non sarà più Asenet il tuo nome, ma ti chiamerai “Città del rifugio” perché sotto le tue ali molte nazioni troveranno riparo. Andrò da Giuseppe e oggi stesso egli verrà da te, perciò per lui ti vestirai e ornerai come una sposa».
Fece Asenet tutto come le fu chiesto e colma di gioia chiese all’angelo come si chiamasse ed egli rispose che il suo nome era scritto dal dito di Dio nel libro del più eccelso dei re ma nessuna creatura poteva leggerlo né udirlo. Allora Asenet tirò l’angelo per la veste:
«Ascolta me, adesso, angelo innominato. Siedi su questo letto al quale nessun uomo si è accostato e appronterò per te una tavola con lesto desinare e del buon vino per il tuo ristoro e poi andrai dove dovrai».
«Allora fa presto».
E mangiarono e bevvero insieme sul letto verginale e l’angelo chiese:
«Portami un favo di miele».
«Permettimi di mandare un servo a prenderne uno in campagna».
«Va’ invece a prenderlo nella tua stanza».
E con grande sorpresa lo trovò dove l’angelo aveva detto che c’era e il favo emanava profumo come di mirra ed era bianco come la neve. E le pose l’angelo la mano sul capo e la benedisse. Poi spezzò il favo e ne mangiò un frammento e ne pose un altro fra le rosse labbra e i bianchi denti di Asenet, ed era quel frammento di favo il pane della vita, che Asenet succhiò a lungo sentendone il dolce sapore invaderla come un lento fuoco. Poi egli allungò la mano e pose il dito sul bordo del resto del favo che rivolse a est e il percorso del dito lasciò una traccia di sangue sul favo e stese la mano una seconda volta e pose il dito sul bordo del resto del favo che rivolse a nord e il percorso che il dito lasciò era una traccia di sangue. E mentre Asenet si stupiva ritta in piedi alla sua sinistra, uno sciame d’api uscì dal favo, alcune bianche come la neve e altre rosse come il sangue e si posarono su di lei e l’avvolsero tutta che Asenet ne era interamente vestita e ronzava del loro ronzare e le api deposero miele vergine sul suo palmo che Asenet leccò guizzando la piccola lingua e a lungo succhiò l'angelo le dolci dita della vergine e le ali delle api erano iridescenti, viola e blu e oro e avevano diademi d'oro sul capo e pungiglioni appuntiti e tutte le api volavano in cerchio intorno a lei, sfarfallando dai piedi fino alla testa e molte api, grandi come regine, si posarono sulle sue labbra e carezzavano con le minuscole ali vibranti l’avorio dei denti. E comandò l’angelo alle api di tornare al loro posto e queste lasciarono Asenet vestita di miele e caddero a terra una per una, morte. E l’angelo ancora comandò alle api di rialzarsi e tornare al loro posto e queste rivissero e si rialzarono e volarono fuori dalla finestra d’oriente.
«Hai osservato tutto questo?» chiese l’angelo.
«Sì, mio Signore».
«Così sarà delle mie parole».
Allora l'angelo stese la mano per tre volte e toccò il miele e il fuoco uscì e consumò il miele senza bruciare e il profumo che emanava dal miele e dal fuoco era molto dolce. E toccò il favo, e il favo prese fuoco e trasse una fragranza rinfrescante che riempiva la stanza. E Asenet chiese all’angelo di benedire anche le sue ancelle e Asenet le chiamò e l’angelo le benedisse. E chiese l’angelo di toglier via la tavola dove avevano mangiato e quando Asenet si voltò per farlo, l’angelo scomparve ma guardando dalla finestra d’oriente parve ad Asenet di vedere un carro di fuoco trainato da quattro cavalli che ascendeva al cielo. Ed era Asenet colma della luce del Signore. E si vestì e ornò, la dea delle api, come una sposa.

A l’apparir de la beltà novella nasce un bisbiglio e ‘l guardo ognun v’intende, sí come là dove cometa o stella, non piú vista di giorno, in ciel risplende; e traggon tutti per veder chi sia sí bella peregrina, e chi l’invia. Mostra il bel petto le sue nevi ignude, onde il foco d’Amor si nutre e desta. Parte appar de le mamme acerbe e crude, parte altrui ne ricopre invida vesta: invida, ma s’a gli occhi il varco chiude, l’amoroso pensier già non arresta, ché non ben pago di bellezza esterna ne gli occulti secreti anco s’interna...
Come Aseneth risorta dalla cenere, il suo corpo reca in sé il miele di tutte le api, di tutte le api ninfa regina. Il miele che non corrompe perché non è corrotto. Fuchi ronzanti, addio. Basta a se stessa Giuditta e alla sua giustizia. Già gli avamposti l’hanno avvistata e guizzano i guerrieri come pesci argentini all’incontro con l’esca appena gettata. Venite, pesciolini, e ammutolite di meraviglia perché l’amo è ben celato. Non per voi ma per Oloferne si è svelata, la splendente. Non simula: dissimula; come sempre, dice e non dice perché il non detto è più forte e ancor più accende. Se c’è del vero nella finzione, è la finzione a esser vera e porta l’inganno la verità con sé. Nulla va svelato, o uomini, perché sono il mistero e l’ignoranza la salvaguardia dei vostri occhi impudichi che la potenza della verità incendia e incenerisce. E tu vedrai e saprai, Oloferne, e la tua conoscenza ti perderà, perché ella
non è una donna, ma un mondo. Le sue vesti cadranno, e tu scoprirai sulla sua persona una successione infinita di inesauribili misteri.
Misteri che lo svelamento rivela e vela di nuove e più insidiose vesti, così com’è nascosto ogni dio nella gran lupa, puttana sacra come una dea. Vedrai il suo dio, Oloferne, senza veli e ne sarai fulminato perché ogni dio è tutti gli dèi, e uno solo. E tu, Oloferne, illuso di possesso, sarai posseduto come possiedono le ninfe che dànno la follia, le Lilith e le lune nere, le Astarti dei Cananei, indiato e morto e non sarai che un Sichem castrato o un Simeone da giustiziare e tu, Manasse, povero amore, nulla di più un Sichem o di un Oloferne mancati o non adatti o non sufficienti o solo distratti e svagati o ebbri del vino o di un colpo di sole e per questo comunque colpevoli.

Uno zio bandisce e ferisce, uno zio accoglie e risana. Una discendente chiude il cerchio. Che importa se gli attori sono differenti e, a uno a uno, incolpevoli? L’equilibrio va ripristinato, delitto per delitto e sarà sua la dolce mano con la bilancia e con la spada. Perché la lotta avviene sempre e solo in famiglia, secolo dopo secolo.   
Ah! Ho baciato la tua bocca, Iokanaan, ho baciato la tua bocca. C’era un acre sapore sulle tue labbra. Era forse il sapore del sangue? Ma forse era il sapore dell’amore. Dicono che l’amore abbia un acre sapore... Ma cosa importa? Cosa importa? Io ho baciato la tua bocca, Iokanaan, ho baciato la tua bocca!

E così diedero a Giuditta la tenda di Oloferne, tutte le argenterie, i divani, i vasi e tutti gli arredi: tutto ella prese in consegna e cominciò a caricarlo sulla mula, poi aggiogò i carri e vi accumulò sopra la roba e portò a casa. E si radunarono tutte le donne d'Israele per vederla e la colmavano di elogi e composero tra loro una danza in suo onore. E prese ella in mano dei tirsi e li distribuì alle donne che erano con lei e insieme con esse si incoronò di fronde di ulivo e precedette tutto il popolo, guidando la danza di tutte le donne, mentre ogni Israelita seguiva in armi portando corone e risuonavano inni sulle loro labbra
e il coro dei satiri irsuti echeggiava con mistica voce. Tutta la terra rideva, mugghiavano gli scogli, le Naiadi mandavano grida, sul fiume dai flutti silenti e le ninfe volteggiavano in un cerchio e intonavano le note concordi di un ritmo siculo come quello che le melodiose sirene spargevano con bocca di miele...

Scorsa gran parte era ormai della notte. Il campo intorno nel sonno universal taceva oppresso. Vinto Oloferne istesso dal vino in cui s'immerse oltre il costume, steso dormìa sulle funeste piume. Sorgo: e tàcita allor colà m'appresso dove prono ei giacea. Sciolgo da' sostegni del letto l'appeso acciar: lo snudo; il crin gli stringo colla sinistra man: l'altra sollevo quanto il braccio si stende, i voti a Dio rinnovo in sì gran passo e sull'empia cervice il colpo abbasso!

Roma, 28 ottobre - 16 dicembre 2016

[Corsivi da Dante Alighieri, Georges Bataille, Cantico dei cantici, Gustave Flaubert, Libro dei salmi, Pietro Metastasio, Nonno di Panopoli, Torquato Tasso, Oscar Wilde]



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