domenica, febbraio 12, 2017

Русалки
Bujeu-Brian d’Aŕaxe

Hou, hou, hou / stojí měsíc nad vodou!
[Oi, oi, oi / ecco la luna sull’acqua!]
           Dvořák, Kvapil - Rusalka

Era un colosso biondo variago o norreno o comunque vichingo ab antiquo, a reggere il cartello che li nominava e incoraggiava a seguirlo, in quell’inglese che tutti riescono a capire. Compitò per cortesia qualche parola del poco russo che ricordava per cui quello decise, sorpreso, di passare alla lingua madre e s’intrattennero conversando fino al parcheggio, uno assentendo con il capo e con qualche fonema che sperava avesse senso e impegnato, l’altro, in un lungo flusso di parole del quale capì meno dell’essenziale. Era così con tutte le lingue straniere: dopo lo sforzo iniziale per non far scena muta da cretino, gli ci voleva un po’ per richiamare alla memoria di lavoro quel poco che sapeva, finché l’immersione continuata nella diversità fonetica non gli avrebbe consentito di osare di più, fino ad arrivare a conversazioni passabili, non diverse da quelle di stranieri che ritengono di parlare la nostra lingua. Non era solo. La ragazza che era con lui non poteva invece che usare il suo inglese fluente e il volenteroso dovette inizialmente alternare l’una con l’altra lingua per rivolgersi ora a lui ora a lei, finché dovette decidere che il suo russo era faticoso o insopportabile e preferì continuare fitto fitto con la sua compagna. Non solo si capivano meglio, ma era anche più interessante.
    Doveva essere piovuto da poco perché il cemento del parcheggio si sforzava di riflettere a sprazzi il paesaggio e le carrozzerie vestivano ancora indosso minuscole goccioline. La grande monovolume coreana di destinazione aveva i portelloni posteriori aperti e, come fosse lì per caso, ella le era accanto, del tutto inaspettata, ritta sotto un ombrellino retrattile, casomai tornasse a piovere o per precauzione che le ultime gocce ancora sospese si decidessero a precipitare definitivamente. Mèsjac, l’interprete nazionale.
    Solo allora sentì di essere veramente tornato o approdato in qualche porto predestinato. La presenza della ragazza gli procurava una certa irrequietezza, una qualche smania leggera, una leggera febbre senza motivo. Gli sembrava che ella fosse, in qualche modo impossibile e sconosciuto, un perno, un fulcro, un punto fermo trovato come per caso dopo migliaia di chilometri, in attesa proprio di lui, di lui che non si aspettava nulla, per un disegno del destino - o del caso, il che è lo stesso - accanto a quella macchina in quel parcheggio desolato e desolante, con gli aerei che rombavano sul capo a salire e scendere, sulla pozzanghera che lo rifletteva insieme con il mondo capovolto a pezzi come un caleidoscopio. Inesistenze e frammentazioni che lo rimandarono, come un deviatore che accende istantaneo, a tutto ciò che non vedeva, che non era presente in nessuno degli Šeremet'evo del mondo ma che sapeva dovesse esserci, da qualche parte e che, in qualche modo, le ruotava intorno. Quella ragazza lo aveva misteriosamente rimesso in piedi ed egli, forse, si sentiva pronto e disponibile a ricominciare... non sapeva che cosa. Ella era come il simbolo di un che di significativo ma vago, indefinito, tremulo come il suo respiro al vederla, qualcosa di sconosciuto dentro di lui che premeva per uscire: era come se il destino, in qualche modo, gli si fosse aperto e rivelato... Era partito abbastanza sicuro di sé e del mondo e ora tutto sembrava giustamente incerto e fluttuante come se gli mancasse... qualcosa d’ignoto. Trovarlo. Esserci. Viverci dentro. Forse era la nostalgia: vi tornava dopo trent’anni e ne era partito sapendo di non esserci veramente stato, che quel suo soggiorno era stato elusivo come una quinta di palcoscenico e che tutto continuava a sfuggirgli e che non ne avrebbe mai compreso nulla: non capire ma contenere, possedere, avere in sé non con la mente ma con il corpo. Tutto troppo ricco e troppo grande per una coscienza fragile e transeunte come riteneva di essere. Invece non voleva passare. Voleva essere, una volta per tutte, forse, e sentiva che avrebbe potuto esserlo qui; forse solo qui avrebbe potuto, avrebbe dovuto... Cominciò a fantasticare.
    La monovolume procedeva spedita sull’autostrada verso Izmajlovo, prima tappa di un lungo viaggio. Mèsjac parlava con la sua compagna ed egli la osservava quasi di nascosto mentre gli scorrevano intorno qualche centrale nucleare e lo squallore anonimo delle periferie, ma non vedeva che boschetti di betulle svettanti bianche e grigie come i nostri pioppi, snelle e indifferenti sotto la neve che ne piegava i rami come giunchi finché con un colpo elastico di reni gettavano quel peso lontano e restavano ritte come lei sotto l’ombrellino a sfida contro la gravità e il tempo atmosferico. Nemmeno era inverno, ma un settembrino appena frizzante.
E sta la betulla
nel silenzio assonnato
ed ardono i cristalli di neve
nel fuoco dorato. 
E correva, correva sulla troika di Gogol’ tintinnante di tutti i campanellini d’argento sotto la luna, che volava come le nubi oscure, chissà dove ed ella era qui... Effetto Russia.
Si guardavano e non si guardavano, gli sguardi si sfuggivano e si riprendevano; ella parlava con la sua compagna ma guardava più spesso lui come se a lui solo si rivolgesse, scortese, invece che all’altra ed egli avvertiva la presenza fisica di quello sguardo come un contatto e un incontro obbligati, forse una premonizione o la preparazione a qualcosa che forse sarebbe accaduto o avrebbe potuto accadere. Ella sembrava insieme quella svolta e il pericolo stesso di quella svolta. Non sembrava che fosse la svolta in sé, il pericolo, ma ella stessa.
La troika diesel li scaricò sotto una sequenza lunga di moderni falansterii, tutti con il medesimo nome per non forzare l’immaginazione (quando mai!) ma ciascuno contrassegnato da una lettera greca. Nominativo e genitivo, nome e patronimico. In quell’atrio immenso e disadorno nessuno prestava loro attenzione e i pochi addetti di passaggio svanivano come anime morte di Čičikov, né era facile individuare il banco del ricettore. Una lunga esistenza sospesa, una morte civile che fu violentata da uno zar o gospodìn, un signorotto mono-lingua (il russo) che si ornava di chiavi d’oro e che fu irremovibile e li cacciò in malo modo, con diffida a ritentare l’intrusione. Sgarbi e sospetti come allora. Non ti agitare, compagno, pensò, ché tra poco in Siberia ci andiamo spontaneamente... Un’impiegata pietosa spiegò poi loro in francese che non era questo il loro albergo e li indirizzò al medesimo ma per un altro ingresso senza nome, identico al precedente ma dove tutto, probabilmente, era rovesciato come in uno specchio. Un albergo-riflesso. C’erano, a Mosca! Oh, se c’erano!
Giorni dopo, nella grande baia di Avača intinse poi un piede nel Pacifico per battezzarsi in un altro mondo o, forse, diluire così, simbolicamente, nel mare maggiore, il groviglio compatto che lo governava da sempre. Non impegnato nella conferenza in quanto principe consorte, seguì gli itinerari proposti da Lynà, l’altra interprete, quella locale, una giovane armena immigrata con la famiglia. Poteva andare a zonzo in libertà mentre la compagna lavorava, respirare l’aria appena salmastra e bruciarsi al sole violento, guardare le facce e ascoltarle parlare, studiare il degrado e l’abbandono dell’architettura rococò in legno vivace di turchese o smeraldo, scivolare a piccoli passi nel minuscolo museo per ottenere poca intelligenza del russo provando a decifrare i minuscoli pannelli esplicativi per poi con un colpo di talloni levarsi improvviso come un’aquila di mare a sorvolare l’Avačinskij innevato alla ricerca della caldera del cratere attivo o, al contrario, tuffarsi ad angelo nella gran baia e nuotare come un delfino per ingoiare seppie e pesciolini e gettare un occhio giù nell’abisso, nonché rimirare in piazza forse l’ultima statua in Russia di Lenin in piedi con cappotto volante. Tornava puntuale in albergo per non perdere nessuna occasione sociale e bere e fumare con Mèsjac sulla terrazza.

Scalciava una notte di luna piena qualcuno agli usci urlando urgente e assoluto un bisogno d’acqua, o forse vodka perché le due parole sono simili e dava colpi ripetuti con intervalli a ritmo di tre quarti, come un valzer ma rovesciato, due arsi e una tesi, che faceva lo stesso venir voglia di ballare. Nella luce pallida la figura si stagliava massiccia e colossale, barbuta, un Raspùtin lunare itelmeno o camciadiale che fosse, come suggeriva la plica mongolica e che sembrava, da come urlava e scalciava a piedi nudi, che anche a lui fosse appena apparsa la Madonna di Kazan a faccia a faccia. Il corridoio si riempì di cauti convegnicoli, brusenti, assonnati, perplessi e preoccupati. Lynà in camicia da notte sarafàn lunga fino ai piedi scollata senza maniche, di tela grezza, pesante ma elegante nel suo lilla intenso e Mèsjac vezzosa in pigiama corto a gonna-pantalone al ginocchio, coordinato su toni diversi di terra-di-Siena, più leggero, forse di seta. Guardava loro. Quello, intanto, urlava e scalciava il suo fuoco disperato di mistica sete, in stridente surrealtà con le ombre fredde, lucenti, indifferenti, del corridoio di angoli retti e sghembi alla Depero o alla Palazzo del Fascio di Como, che avrebbero preferito più rispetto e silenzio intorno, mentre quel pierrot lunaire tragico e belluino ritmava tenace calcio dopo calcio un rosario o filastrocca urlata e incomprensibile, quasi l’ululare di un lupo e della quale forse intendeva appena la parte finale, che sembrava: mgnià greshnagà, o qualcosa di simile, che gli suggeriva: «di me peccatore»... Capirono entrambe e al volo anch’egli capì. Mèsjac bronciò appena il labbro inferiore e se tornò a letto scuotendo il capo ma a Lynà s’accesero gli occhi e, traendolo dolcemente per un gomito, lo guidò in camera sussurrando che aveva l’acqua (o la vodka). Invitò lui e la compagna a seguirli per sicurezza, mentre i perplessi sciamavano lenti borbottando finché scomparvero e tornò pallido e vuoto e muto il silenzio sotto la luna indifferente, come desiderava.
Come lo juròdivyj e pellegrino che era di casa presso il giovane Tolstoj, si chiamava Griša, ipocoristico di Gregorio che prescrive, infatti, di “esser sveglio, stare all’erta” e come quello parlava in slavo ecclesiastico, un paleo-slavo incomprensibile che non scrive nemmeno cirillico ma, semmai, la versione antiquata glagolitica. Lynà, cristiana armena, lo intendeva abbastanza. Trasse dall’armadio una bottiglia di Ararat, il sublime cognac d’Armenia, che si passarono in giro come una canna seduti sul letto inondato di luna, tenendola per il collo e succhiando castamente dall’imboccatura. Beveva e parlava, parlava e beveva, e piangeva. Ripeteva in valzer rovesciato, ininterrottamente, il suo, finalmente decrittato, «Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore» alternando il respiro a ogni sillaba da sembrare un singhiozzo continuo, il singhiozzo del cuore. Juròdivyj? chiese a conferma e Lynà assentì. Dunque, esistevano davvero e liberi di circolare... Il primo stàrec che conosceva e probabilmente l’ultimo, uno di quei “pazzi di dio” dei quali scrive Paolo agli Ebrei: vagano coperti da pelli di pecora e cilici di capra, bisognosi, tribolati, maltrattati perché indegni del mondo, tra i deserti, sui monti, tra le caverne e le spelonche della terra. Come lo dipingono Surikov e Svedomskij.
L’istinto gli suggeriva ribrezzo, non solo per quel cattivo odore di santità, ma per una sorta di avulsione etica. L’altruismo assoluto di costoro, riteneva, tanto assoluto da confondersi con un egoismo altrettanto assoluto, non dà niente se non malessere e fastidio, chiuso nella ripetizione fonetica ossessiva e dura come un mantra e nella sua logica rovesciata; tutto è al suo interno, inaccessibile, un business diretto ed esclusivo fra lui e il suo dio. Pare che la formula, se pronunciata in paleoslavo, abbia una fonetica assai simile a quella dell’aramaico parlato da Gesù, il che qualcosa doveva pur significare. Lo juròdivyj comunica attraverso la provocazione ma non si cura degli effetti, una pedagogia monca di chi semina a caso. Quanto a voi, non vi guardo perché non vi vedo. Un essere inutile per qualunque dialogo, proiettato là dove la vita è una prova e la morte un premio e che sente già, nella sua fede ardente, di cadavere, olezza di quei vermi ed escrementi che hanno fecondato la storia dello spirito - e della bellezza e degli orrori che abbiamo saputo trarne, dalle icone bizantine al massacro dei contadini di Lutero.
Tuttavia, se ne sentiva attratto, tanto pareva diverso da lui; si sentiva privilegiato come un entomologo davanti a una farfalla rara, tentato di crocifiggerla con lo spillone per riporla nella teca sulla parete. C’era fra lui e quell’uomo precisamente la medesima differenza che passa fra la farfalla e l’entomologo: due alieni l’uno all’altro (ma quanto c’è, sotto sotto, di lepidottero nell’entomologo?); perciò avrebbe voluto parlare dell’Angelo suggellato, forse di Florenskij e Rublëv, certamente di Avvakum e del Pellegrino russo, e della Filocalia, dell’esicasmo atonita e tutto quel che segue, dervisci compresi - parlare, parlare - ma non possedeva le lingue né le parole, non quelle che l’alieno avrebbe potuto intendere e nemmeno sapeva da dove cominciare, ammesso che volesse o potesse ascoltarlo. Di fronte a questo enorme invaso di concetti e di parole che gli premevano nella mente e che volevano traboccare come un fiume incontenibile, era irrimediabilmente muto. Gli mancava il dono della parola o, almeno, di quella utile qui e ora. Un paralitico della comunicazione che però poteva osservare e, soprattutto, studiare l’insospettata, onesta, pulita devozione di Lynà che pareva rispettare la santità in qualunque forma si manifestasse.
            Era Lynà poco più che ventenne, non bella in assoluto (chi mai lo è?) ma graziosa di quel fascino antico che a noi pare mediterraneo ma che è solo caucasico, con quella lieve peluria scura sul labbro e il seno evidente nel sarafàn, un taglio d’occhi scuri dritto e ben delineato alla circassa e un naso forse semita, zigomi alti e mento appena appuntito, bocca piccola e carnosa. Una folta massa serica castano scura scendeva fin oltre le spalle dove si adagiava morbida e fluttuante. Faceva indovinare una sessualità solida e costante, affidabile, aperta, rilassata e perciò fantasiosa e biricchina, da buona moglie e buona madre come sicuramente sarebbe stata qualora e quando lo avesse voluto. Come una Maddalena, guardava lo stàrec con nobiltà amorosa, come a un padre spirituale del quale forse non condivideva l’idealismo assoluto dello juròdivyj pur sopportandone, come di un figlio, le intemperanze e giustificando le debolezze, che quello dimostrò súbito, accasciandosi esausto sul pavimento dove prese a russare con il medesimo ritmo ternario della sua preghiera. Pregava anche nel sonno. La ragazza lo abbracciava con lo sguardo rispettandone la libertà a costo della propria. Quando se ne andarono, poco prima dell’alba, li ringraziò di una timida carezza e posò appena le sue sulle loro labbra, all’uso russo antico, con dono del resto dell’Ararat. «Si è ripreso poco dopo - disse a colazione - e se n’è andato senza salutare né ringraziare, oltraggioso come un raskól, un vecchio credente che non conosce mezze misure, biascicando la sua preghiera...». Non osò chiedere se gli avesse lavato i piedi asciugandoli con i capelli.

Il luogo, il nuovo, l’aria, i vulcani, l’occasione, lo sfioramento, più che l’incontro, con lo stàrec, la presenza e la frequentazione delle due fanciulle - nulla, insomma, a ben vedere - lo avevano a mano a mano avvicinato al bordo di quell’alta falesia sulla quale gli sembrava ora di trovarsi con la testa vuota e in leggero capogiro come in alta quota, alla quale si era tuttavia accostato insensibilmente, prima a piccoli passi e poi letteralmente strisciando sul terreno temendone le vertigini; ma si sentiva padrone piuttosto euforico, ora, di questa nuova, minima saldezza interiore che lo faceva pronto a spiccare il salto che aveva sempre temuto, forse solo un salto, un salto qualunque, capofitto dentro un ignoto che gli sembrava ora abbastanza dominabile, possibile, a portata di mano e niente affatto minaccioso o, forse, già conosciuto nei sogni, in qualche altra esistenza precedente (o forse successiva se il tempo fosse circolare). Di che salto si trattasse, non aveva idea. C’erano solo questo brivido, questa sensazione, un piccolo vibrare interno senza contenuto, un’agitazione molecolare apparentemente vana e senza progetto. Un moto browniano pronto non si sa per che. Non effettuava salti di sorta: solo, restava in bilico. Non era tanto male. Avrebbe potuto restar così a lungo.
Non lo sapeva, ma a questa sia pur piccola cosa - questa insofferenza, questa febbre, questa vana elettricità, questa situazione di bilico - si era preparato per decenni, per una vita. Tanto sforzo per così minimo risultato. Basta poco, quando tutto è come deve, riconoscere quel che avevi da sempre sotto il naso e non vedevi: serve una concomitanza fra l’interno e ciò che chiamiamo esterno; se e quando, e solo se e solo quando, le due sono collimate, scocca la scintilla, come insegna il koan del monaco che giunse all’illuminazione chiedendo al mercante quanto costava quel pesce: non dipendeva dal pesce né dal mercante né dal monaco ma dipendeva da tutte queste cose insieme. Non si trattava, qui, di illuminazione e nemmeno di una nuova coscienza o conoscenza: era un sentimento, uno stato emotivo o poco di più. Il problema era sapere che cosa ne avrebbe fatto. Un orgoglio, inoltre, ne accendeva a egregie cose il forte animo, tutto sommato sbilanciandolo ancora di più: giorno dopo giorno ritrovava crescente fiducia nella lingua russa, non praticata per trent’anni (e, anche allora, conosciuta solo in superficie) e che ora pareva tornargli in punta di labbra e di mente senza sforzo, come se alla memoria non fossero mancati che vodka e caviale per riaccendersi. Aveva amato molto quella lingua e quella letteratura, così musicali e ricche di petali sottili e spine forti e appuntite e personaggi dalla psicologia fine e potente - come tutte le lingue e tutte le letterature, del resto, a conoscerle bene, perché l’uomo è questa meraviglia e questo orrore universali. E amava il russo anche perché, pur se a modo suo, era comunista (ma ogni comunista lo è a modo suo, specialmente di questi tempi). Era cambiato lui, semplicemente, per vie sconosciute e inconoscibili. Non tutto: solo un po’. Qualcosa di impercettibilmente nuovo. Le piccole anime accedono a piccole trasformazioni.

Non conosci veramente un popolo e un paese se non ve vedi il cimitero e il mercato. Non videro il cimitero. Il mercato era un misto di povertà e profusione e l’una, in folclore da cartolina, si accavallava sull’altra. Abbondanza, su strutture avventurose e traballanti, di frutta e verdura e pomodori di grande bellezza, coltivati in serra mercé la geotermia e abbondanza di pesce e, soprattutto, dovizia di caviale grezzo giallo, rosso, rosa, e gradazioni intermedie in contenitori da dieci, venti, trenta chili... Da impazzire, da capogiro, da bloccare l’ossigeno al cervello! Fu qui che lo rividero, calmo e anonimo, scalzo e nel medesimo spolverino di quella notte, liso ma pulito, e con la gran massa dei capelli pettinata con cura e fermata in un elegante codino, come un buon suddito senza grilli per la testa - anche la barba aveva ricevuto qualche sforbiciata - contrattare filetti affumicati di storione accanto a una preoccupante Lynà tenuta per mano. Interrogata con lo sguardo, sorrise e rispose, abbassando gli occhi: «Gli ho fatto prendere un bagno...».
C’era un’osteria dietro il mercato, poco più di un’izba cadente ma funzionale anche se si poteva bere solo kvas, quell’acquetta più leggera della birra, qui di rara linfa di betulla fermentata, che faceva immaginare il palato di bosco amaro. Dava di sé un’immagine diversa. Parlava lento scandendo le parole nel buono stile di Tolstoj e Turgenev e senza gutturali barbariche da paleoslavo. Una persona colta, forse da aula universitaria. Ogni tanto s’infiammava e la voce saliva di tono, quasi un falsetto da controtenore e ogni tanto scendeva ad abissi di basso alla Šaljapin. Un piacere ascoltarlo, quasi musicale, anche se non comprendeva tutto, al che sopperiva paziente la buona Lynà. Non gli sembrava diversa da come la conosceva, ma gli sguardi che rivolgeva all’uomo erano un racconto dentro la storia. Lynà, dove ti stai imbarcando? pensava. Davvero vuoi far fare i tuoi figli da questo squilibrato? Non c’erano dubbi che la ragazza piacesse a lui stesso, e che c’era forse una punta di gelosia nel preoccuparsi così del suo destino. Diversamente da quella sera, gli riuscì di porre molte domande alle quali lo stàrec rispondeva garbato e disponibile. Un’altra persona. Voleva dare buona impressione di sé? Non è normale per un folle di dio! Subodorava anche, in più, che quello fosse ansioso della sua approvazione nei riguardi di Lynà, come se gli riconoscesse un diritto di prelazione sulla ragazza, del tutto fuori luogo, ma gli dava un certo vile e basso piacere il pensarlo.
«Ogni cosa è vivente - diceva - perché c’è al suo interno una parola segreta. Conosci la parola e avrai la cosa. Non ha forse Dio creato con la parola? Adamo le conosceva, ma le dimenticò. Per questo bisogna ripeterle continuamente, per far sì che non schiodino dalla memoria e tocchino il tuo cuore. Io ripeto la mia, che è quella che accomuna tutti i veri credenti, i vecchi credenti. Devi scoprire la tua e ripeterla senza sosta: alla fine quella parola non avrà più senso né significato, come nulla lo ha. Puro suono, come il suono creatore. Esistenza pura e, dentro o accanto l’esistenza, l’essenza. Come Dio. Così sarai libero, come lo sono io». E ancora, in contraddizione: «Non sono libero perché devo bere e mangiare e dormire e avere una donna per vivere. È la vita incarnata necessità pura: obbligo, dovere, anche piacere e felicità; tutte necessità dalle quali dobbiamo difenderci. È questa la nostra libertà: lotta quotidiana contro noi stessi e le nostre necessità. L’amore di Dio - il nostro amore per Lui e l’amore che da Lui ci proviene - ci guida perché siamo noi stessi Dio». E anche: «L’amore e il sesso sono la nostra risorsa. Dio e il sesso, le due forze maggiori. Nel coito siamo uniti in un solo essere come voleva Platone, non per seduzione dei sensi, ma perché la coppia carnale è Dio stesso. Dio è solo nella coppia. Come dice Paolo: “il corpo non è per l'impudicizia, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo”. Pecchiamo per andare oltre il peccato, quindi non è peccato».
            Una logica inesorabile e perciò inquietante. Quanto Lynà poteva essere d’accordo? Forse le interessava l’uomo più del pensiero - era possibile. E poi, chissà quale credo sotterraneo o di superficie praticava Lynà nella sua Armenia da sempre cristiana? Si fa presto a dire cristiano armeno: miafisita, uniate, evangelico? O magari era Yazide... e, a quanto sapeva, molto paganesimo sottostava nel movimento degli juròdivye, culti e prassi paleo e neolitiche, sciamaniche e dervisce. Questa Russia è un universo che conserva e trasforma, ma in modi che non immagini...
Aveva appreso i rudimenti del mestiere in un anonimo seminario di qualche sperduta landa siberiana, dal quale fuggì quando entrò in contatto con la setta dei Chlysti (qui ti volevo!), quegli avventisti flagellanti, rotanti e orgiastici ai quali si favoleggia fosse appartenuto il famoso Raspùtin e che, con infinite altre, prosperava nel nuovo orizzonte religioso della Russia post-sovietica. Non poteva, non voleva, non osava vedere la sua Lynà ritta nuda sull’altare come una Pistis Sophia degli ofiti, mentre gli adepti si accoppiavano sul pavimento dopo le loro giravolte turbinose...
          Lynà lo guardò e forse capì. Passò come una scintilla fra i due, ricca di nulla e di sottintesi. Fece scorrere un brivido tra i capelli, sorrise e gli carezzò il dorso della mano. Poi si alzò e fece alzare l’uomo, raccomandandogli lo storione e dopo i convenevoli saluti se ne andarono mano nella mano a dissolversi tra la folla del mercato. Guardò la sua compagna, che lo osservava divertita e forse un po’ sardonica. Allargò le braccia e strinse le spalle, le cinse la vita e s’incamminarono nella direzione opposta.

La gita premio a pagamento li intruppò su torpedoni e la polizia li scortò fino a Yelizovo dove un grosso gatto siberiano controllava la regolarità del traffico dagli scalini, li imbarcò su elicotteri da trasporto per due ore di fracasso che obbligava al silenzio e volare sbigottiti intorno a vulcani fumanti e laghi smeraldo in vetta alle caldere fino, infine, alla famosa Valle dell’inferno, una puteolana attrezzata per star sicuri da bolle, veleni e getti regolari da 250 gradi e ah! e oh! in tutte le lingue e clic clic e vrr vrr delle macchine per tesorizzare, esclusi gli odori, tuoni, colori, fanghi, vapori, arcobaleni e tundra marina di cespugli nani di frassini e conifere e foto con l’autoscatto. Un inferno paradisiaco. L’anno successivo un terremoto avrebbe risommerso il tutto. Era l’ultima occasione, ma non potevano saperlo. Tutta la giornata passò così, da una meraviglia all’altra, fino allo spuntino eccessivo nella casina del bosco con molta vodka, rasente il piccolo fiume d’argento dove l’elicotterista pescava salmoni come se piovesse...
Al ritorno, le ragazze, trepide e impazienti fuori dall’albergo, li sequestrarono sulla terrazza del bar in attesa dell’imbrunire e per farsi raccontare, come se non aspettassero che loro, cose ed emozioni della giornata. Serpeggiavano piccoli brividi di fresco settembrino nonostante la giornata calda, preparandoli andante con moto all’escursione termica della notte ed era piacevole starsene sulla terrazza a sorseggiare pìva schiumosa e amarognola in compagnia di ragazze che, in due, non sommavano cinquant’anni. Poteva esserne padre. Era evaso da loro, quelle due, tutto il giorno e gli era spiaciuto, anche se ogni tanto il pensiero, l’immagine, ritornavano ad aggredire insidiosa l’attenzione. Era un ritorno caldo e affettuoso ma distraente, che lo faceva essere altrove e se ne trovava inquieto perché il pensiero, l’immagine, sorgevano da sé quando volevano, come se il suo desiderio avesse bisogno del sotterfugio dell’inconscio che suggeriva, subdolamente, questa presenza riproponendola ogni tanto, come una sveglia con reiterazione, che non smette finché non la blocchi. Non la bloccava, come avrebbe fatto un buddhista - ci si crogiolava.
Mèsjac aveva gli occhi gonfi e le pupille lucide come dopo il pianto, o forse era semplicemente ubriaca. Desiderò prenderla fra le braccia, cullarla come una bambina triste, coprire di baci quel volto minuto, quelle piccole labbra bronciate e quegli occhi gonfi di alcool o di dolore. Paterno. Incestuoso. Lo gratificava il suo non staccargli gli occhi di dosso mentre parlava come se, come si dice, pendesse dalle sue labbra, mentre declamava minutamente, con l’enfasi dell’osservato - e in pratica solo per lei - ciò che esse non avevano visto, che non avrebbero visto mai, probabilmente, e le emozioni corrispondenti. Ma ella si alzò e se ne andò di punto in bianco senza spiegazioni, come in una crisi rabbiosa di gelosia o come se la cosa non la riguardasse più o non l’avesse mai riguardata e si fosse disposta ad ascoltare solo per pura cortesia o come se il ricordo improvviso di un impegno più importante la chiamasse súbito altrove. Il suo agire senza dire lo riprecipitava in quelle sabbie mobili dalle quali credeva di volersi affrancare. La guardò scomparire perplesso e ferito e con un certo sforzo distolse gli occhi e la mente dalla porta che si era chiusa oscillando dietro di lei. Rivolse l’attenzione alle altre due, che parlavano fitto fitto, come se non si fossero accorte di quella piccola, vuota, inaspettata, inutile, inspiegabile lite fra innamorati.
Non si era mai nemmeno accennato, fra i due, all’ipotesi di questa emozione, questo stato, forse ancora latente nella coscienza o, forse, solo nella comunicazione. Egli aveva i consueti macigni da trasportare ed ella non doveva essere da meno. Forse percepivano entrambi che si stavano muovendo incontro l’un l’altra ma non osavano dirselo - tantomeno dirlo. Si alzò a sua volta per calmarsi e distrarsi appoggiandosi alla ringhiera e accendendo una sigaretta. Guardava il tardo crepuscolo avvicinarsi pian piano, lentissimo, con quel sole sempre su che non scende mai, allo squallore della periferia che ospitava l’albergo in quella periferia dell’impero. Tutto qui era grigio e provvisorio, rabberciato e incerto, come un borghetto di Pasolini, come se un’ennesima, prossima catastrofe sociale o tellurica confermasse l’inanità degli sforzi, come insegna l’Ecclesiaste o il salmo 126 che ricordava bene mercé Vivaldi:
Nisi Dominus aedificaverit domum,
in vanum laboraverunt qui aedificant eam.
Nisi Dominus custodïerit civitatem,
frustra vigilat qui custodit eam.
Vanum est vobis ante lucem surgere, eccetera.
E così, cantandosela nella mente, la mente tornò alla farfalla folle di dio e ci si soffermò a lungo.
            A cena, leggera di pesce, Mèsjac non c’era né Lynà sapeva nulla. Al termine andò a cercarla. Era in camera, sdraiata sul letto, del tutto ubriaca, in stantio odore di fumo. Aprì la finestra e sedette sul letto. Ne sfiorò le labbra ed ella gli prese la mano. Restarono così a lungo mentre il cielo si faceva finalmente buio e gli oggetti svanivano gradatamente alla vista ed essi con loro.
E là, su guanciale di sabbie brillanti,
all'ombra dei giunchi là dorme
già preda un guerriero dell'onda gelosa,
guerriero di terra lontana.
Così la russalca sul fiume turchino
cantava in oscura mestizia;
e il fiume sonoro scorrendo, cullava
le nubi riflesse nell'onda.
Quieta si addormentò. Chiuse la finestra, stese una coperta e uscì con cautela. Fuori, le due ragazze attendevano. «Dorme, ubriaca persa». «Starò con lei», disse Lynà ed entrò.
              
Il convegno giungeva al termine e iniziava quel tempo nel quale le cose più non sono nel tempo proprio, oscillando l’attenzione come un pendolo dall’è stato al sarà sbilanciandosi, come su un piede solo, a ciò che dovrà o dovrebbe essere e la mente si volgeva al dopo, alla partenza da preparare e, d’altro lato, al prima, alle cose fatte o non fatte, a quelle rinunciate o quelle da far meglio o peggio. Erano senza dubbio nati amori o comunque relazioni e liti più o meno intense e definitive, come sempre mettendo in un contenitore diversi esemplari viventi - piante o animali non fa differenza - e star a vedere quel che succede. Apparentemente non accadde nulla. D’altra parte, gli effetti si sarebbero veduti col tempo, con il deposito della polvere e la maturazione dei germogli e la digestione delle esperienze, fino alla loro deiezione, fecondatrice di altri eventi o altri viventi.
Cosa vedremmo se guardassimo dall’alto i nostri eroi? Sì, dall’alto, che è una postazione privilegiata per vedere il passato, il presente e il futuro, come se la storia nella quale si è coinvolti fosse una processione o una sfilata in un tempo lineare, della quale chi rimane al livello zero nulla sa perché ci vive dentro nel presente e da questo presente non può uscire. Già al primo livello di postazione vedremmo il futuro della serie e il suo passato: dove sta andando e donde viene. A livelli ancora superiori avremmo contezza non solo della sfilata o processione, ma anche dei movimenti di tutto ciò che la circonda, e avanti (e più in alto) ancora, fino a uscire dalla Terra, dal Sistema solare, dalla Galassia, proseguendo fino a quell’Occhio che tutto vede (se c’è e se sta guardando). Vedremmo i motivi passati e gli scopi futuri di questo sistema tolemaico, le cause assolute e gli effetti inevitabili. Non credo che ci divertiremmo perché la conoscenza dell’ineluttabile non dà piacere, che proviene, invece, dall’ignoranza e dalle emozioni che si provano via via, senza sapere dove ci porteranno e rischiando, così, le nostre esistenze, come al tavolo verde, dove la sorte è un mistero e la scommessa possiede tutta l’energia della vita e del caos e del cosmo. Mai fare i Tarocchi per saperlo...! Inoltre, è pur vero che non sappiamo se il tempo scorra lineare o meno: i salti quantici sono sempre possibili e ogni storia diventerebbe quanto meno olografia di se stessa o nastro di Moebius che, alla fine, ritorna capovolto e non sai più cosa sia interno e che cosa esterno o, peggio, potrebbe proliferare come un frattale... Per non complicare il semplice, riscenderemo quindi al grado zero e insieme guarderemo ciò che sarà visibile al loro livello lineare. Tutto ciò che ne sarà al di là ci resterà ignoto.
Mèsjac aveva alla fine osato, con la disperazione e con il coraggio che l’alcool richiede e produce, fargli pervenire le foto solitarie che si era scattata con il telefonino riversa sul letto, forse in scommessa dell’attesa di lui: occhi grandi, fissi nell’obiettivo, umidi intensi e annebbiati, forse solo ubriachi o forse imploranti, a volte tragici a volte insinuanti e le labbra con un’ombra, ogni tanto, di tenue sorriso di leggera malizia e allora ammiccava appena lo sguardo e un’altra ombra, appena accennata, ma non metaforica, di seno, sulla quale si posava leggero un pendente con triangolo d’oro, sparsi i capelli scuriti, per contrasto, sul bianco del cuscino.
Si avvicinava la festa della cena sociale e si percepiva nell’aria che tutta l’organizzazione stava fibrillando ma impeccabilmente, con metodo, questo sì, ancora sovietico - un’ammuìna controllata. Per esempio, solo ora cominciavano a ripulire il campo brado la cui vista li aveva deliziati di rottami e rifiuti solidi urbani per tutto il soggiorno, carta che volteggiava al vento e scarti di qualunque altra cosa, come se la pulizia dell’esterno dovesse coincidere con quella dell’interno, cioè riguardasse anche gli ospiti dell’albergo: quello che si dice, letteralmente, “far piazza pulita”; alla fine, ci sarebbero stati quell’ordine e quella pulizia assoluti che solo dànno il vuoto, l’assenza, il deserto di cose e di persone. E la piazza restò, alla fine, impeccabilmente vuota e ordinata e pulita a contemplare se stessa, inesistente come il fiore che vegeta nel deserto.
Quelle immagini... Una prova oggettiva, un segnale, una promessa, forse un invito o un esempio di che cosa sarebbe potuto essere e di che cosa rischiava di perdere: la principessa era là, prigioniera nella sua torre circondata da muri di fiamme come la valchiria e attendeva... e c’era voluto l’alcool per poter osare. 
Questo ipotetico, mutuo avvicinamento, curiosi l’uno dell’altra, era però senza un progetto, un impegno, una reciproca affermazione esplicita, come se il germoglio fosse tanto importante e pericoloso per gli equilibri interni ed esterni di entrambi e tanto fragile e bisognoso di protezione, da esigere silenzio, cautela, sicurezza che ci fosse rispondenza vera, effettiva nell’una come nell’altra parte. C’erano solo gli sguardi, che possono dire molto, forse tutto, ma anche nulla.Il dubbio non era sull’orizzonte: un episodio non avrebbe richiesto tanto (nemmeno lo avrebbe voluto) ma una vita sì. Fu forse così fin dall’inizio, fin dalla troika-furgone; l’avevano forse avvertito súbito entrambi, ma non c’era movimento reciproco; c’era solo l’obiettività, inesorabile, del fatto che la cosa stesse accadendo, come se non dipendesse da loro - un buon alibi. Post hoc, non propter hoc, o qualcosa di simile. Non c’era fra i due, insomma, un’onesta, esplicita e volontaria linea retta, perché la linea retta è dell’episodio che si consuma in se stesso mentre la vita ha bisogno di impalcature complesse, di un labirinto elusivo e mascherato, un gioco tragico ed entusiasmante nel quale perdersi e ritrovarsi in mille giravolte preventive evitando con cura l’inganno di trovarsi, invece, su una ellissi dove i centri non sono univoci e le tangenti fuggono in troppe direzioni o, forse, come a percorrere una rischiosa iperbole, che è cauta e lenta e stabile verso il centro degli assi ma, poche coordinate più in là, corre e fugge inarrestabile da parti opposte e scompare veloce e per sempre, sempre più sottile, sempre più lontana, all’infinito - lasciandoti in mano e nella mente solo la prova di quelle doppie immagini, a lei quelle scattate, a lui quelle ricevute, simboli e prove, allora, solo di se stesse e di nient’altro.
La truppa, in ordine sparso ma rispettando i turni stabiliti e con con quella leggera eccitazione che invade quando si sa che nel prossimo futuro ci saranno benessere e divertimento e compagnia, salì ilare e con brusii leggeri e ben disposta nei torpedoni scortati per una destinazione balneare, un ristorante-balera dove c’erano già schierati ad attenderla gli artisti che si sarebbero esibiti in saggi di folclore turistico siberiano non diverso, nei costumi nelle danze e nei canti, da quello degli Amerindi o degli Inuit visti in tanti film. E vodka e banchetto eccessivo e chiasso e aspettativa di s’annamo a ddivertì.
Mèsjac era forse, tra tutti, la sola a non manifestare allegria, tanto meno piacere, nemmeno di quel minimo che indica rilassamento, noncalanza del futuro o del passato, come se solo esistesse il presente, come accade quando non ci sono altri pensieri che quello del piacere e del presente che lo accoglie. Il viso era immobile e lo sguardo fisso al vuoto, come assistesse invece alla rappresentazione di una tragedia interiore, sempre la stessa, che ormai conosceva bene e della quale forse nessuno o pochi della sua vita dovevano essere al corrente. Era con quello sguardo che lo guardava, e che egli ricambiava tentando di sondare il mistero retrostante. Mèsjac, la donna del mistero. Si guardavano. Non dicevano. Uscirono - bastava un lampo d’occhi per intendersi - con il pretesto di fumare ma, appena fuori, avvoltoi, ragazze e ragazzi indigeni o del convegno che affollavano il dehors, li strinsero a crocchia da presso per molte domande, infinite, ripetute - perché... perché avevano scoperto che... era italiano! E i due furono attorniati e intrappolati con intrappolate negli occhi tutte le parole non dette, che non potevano dirsi, che forse non si sarebbero mai dette, le carezze che avrebbero, forse, osato farsi. Parole che c’erano invece e troppe, tutte intorno a loro ma che erano quelle degli altri, non del loro desiderio.
La direttrice, vezzosa in mezza sera, aprì le danze. Lynà da tempo meditava qualcosa. Era rimasta sempre seduta guardandosi intorno come se fosse là per dovere, come una zitellina da tappezzeria che non osa, che non ritiene di possedere risorse sufficienti per osare gettarsi nelle danze e, magari, intavolare contatti e conoscenze. Aveva però registrato gli sguardi e le fughe dei due per cui, appena fu utile, si alzò a sua volta e si avvicinò candida e mite ma ben decisa alla compagna di lui per riuscire a bisbigliarle qualcosa all’orecchio nel chiasso dell’orchestra ed egli vide, nella sorpresa delle sopracciglia dell’una e nel sorriso soddisfatto dell’altra, che le era stato concesso il permesso di... ballare con lui! Da quando ci vuole il permesso? Scusa, mi presti tuo marito? Ahi! maliziosa gattina morta, pensava agitandosi al ritmo, che hai fatto del tuo Griša che ti rivolgi a me? mentre chiedeva seriamente a se stesso quanto, invece, avrebbe potuto veramente durare nel ballo prima che alla destra, poco più corta per un incidente, cominciasse la contrattura del polpaccio - ma s’impegnò a fondo e gli riuscì di inventare qualche coreografia di successo tutto a beneficio della ragazza. Al termine, Mèsjac, sempre attenta nell’apparenza svagata, gli fece un provvido cenno prima che Lynà o qualsiasi altra ci riprovasse, e furono súbito fuori.
Questa volta c’era silenzio intorno come per l’arrivo dell’angelo sterminatore sì che il chiasso della musica non potesse più uscire dalla sala e si fece lontana, ovattata, un brusio di foglie leggere - il mondo non c’era più, svanito con l’ottundersi dei suoni. Uno spazio soltanto, minuscolo e un tempo solo, breve ma infinito, tutto per loro, li videro avvicinarsi l’uno all’altra appena appena strisciando lungo il muro come a darsi sostegno... a guardarsi ma forse a non dirsi... forse a non toccarsi...
Forse erano più simili di quanto potesse sembrare, perché c’era in entrambi una difficoltà, un pudore a manifestare all’esterno emozioni e sentimenti. In lui, poi, mentre le emozioni iniziavano a montargli dentro, gli accadeva di vedersele addosso come dall’esterno, e si sentiva spettatore critico di un teatro, del teatro di se stesso, sì che quelle non riuscivano mai a colmargli l’anima. Quel fuoco non diventava mai sacro. Per questo poteva essere attratto da un alieno come Griša, esempio vivente di una natura complessa ma unitaria, tutto sommato semplice e coerente, colma di una sola ardente passione, ciò che egli non sarebbe mai stato. Un po’ - solo un po’ - era come ammalato del morbo di Gončarov, come un Oblomov pigro ma delle emozioni, solo delle emozioni, la cui assenza o inconsistenza lo rendeva facile preda delle irrealtà del sogno, dell’immaginazione... - o della fantasticheria, che è più grave - quando ella stessa avrebbe forse e invece desiderato da lui un’azione irruente, passionale, dirompente e definitiva, che sapesse romanticamente colmare i suoi vuoti e forzarne la volontà, come si narra nell’epica dei grandi bogatyri delle byline della Rus’ di Kiev: un Il'ja Muromec che divenne santo per quanti ne ammazzò, o un Alëša Popovič tanto scaltro da vincere senza combattere o il coraggioso Dobrynja Nikitič, l’unico nobile e non analfabeta e Svjatogor dalla triste gigante figura...
Ancora una volta li dannò o li salvò il ballo degli ingrati, sciacalli che irruppero tenaci dalla sala, anche questi a domandare e domandare ansiosi e doveva ella, paziente, sopperire, come prima, alle carenze del suo russo e del loro inglese... Si vide inevitabilmente dall’alto, addossato con lei al muro, accerchiati e prigionieri, baionette alla gola e rise fra sé della situazione e ammirò la tenacia della maledizione. Il gran dio di Griša non voleva; altro che angelo sterminatore: ci sarebbe voluta l’armata di Budënnyj con la stella rossa in fronte a far strage dei Cosacchi di Kerenskij, o un san Giorgio a cavallo e mantello svolazzante, che irrompe come un turbine, sgozza tutti i draghi e salva la fanciulla incatenata... ma... ma l’avrebbe poi certamente presa per sé il gran guerriero, sollevata sul cavallo impennato tutta nuda a galopparsela lontano... Meglio cancellare Guardie Rosse, santi Giorgi e bogatyri in massa e tornarsene mesti in sala. Non erano per lui. L’angelo, se pur fosse passato, lo aveva fatto invano.

Quando gli angeli passano, lì per lì non se ne accorge nessuno perché il clinamen è appena percettibile e le sue conseguenze appaiono più evidenti solo a mano a mano che prosegue il cammino e si vede che discosta da quello precedente; a volte si rivelano solo alla fine; fine solo presunta perché, in realtà, i cammini sono infiniti ed è probabile che queste non saranno mai rivelate; specialmente come in questo caso - perché, in effetti, l’angelo passò - e tutto fu traslato in una diversa dimensione, della quale non possiamo avere conoscenza. Hanno un altro difetto gli angeli: ti porgono qualcosa dall’esterno, come una medicina sottile che ti s’intrude provocando, nel migliore dei casi, una reazione della tua chimica perfetta, che s’incarica di armonizzare, per dirla breve e semplice, salute con malattia perché l’una non è che un aspetto dell’altra e convivono da sempre; questione di grado, non di qualità. Nel peggiore dei casi, invece, l’angelo ti sostituisce qualcosa che hai dentro e che ci hai messo comunque una vita a costruire (fosse pure la malattia...), con qualcosa che non hai elaborato e che da allora in poi diviene parte di te stesso senza esserlo. Il mito funziona così: non sei più responsabile, ma lo è l’angelo del caso perché ogni contatto con il divino (gli angeli lo sono) è una possessione di te da parte del divino; non siamo in democrazia ma dittatura. Non più tu parli e agisci, ma l’angelo che ti possiede. Come un pianeta dell’astrologia. Fu quel che accadde e non furono più loro. Altri. Creature del mito.

La collina Nikòlkaskaja, a sud della città, si erge verdissima come una lingua di terra quasi al centro della baia. A ridosso del ferragosto del 1854 (era la guerra di Crimea) inaspettate navi da guerra inglesi e francesi arrivarono qui chissà perché, tentando di sbarcare e occupare militarmente la zona. I pochi russi della guarnigione, che nemmeno sapevano di essere in guerra con Francia e Gran Bretagna, non ci pensarono due volte e difesero spontaneamente il territorio contro forze e armamenti preponderanti, e talmente bene che gli alleati, dopo diversi tentativi disastrosi, alla fine si ritirarono, coda tra le gambe. Per questo eroismo, la collina è puntellata di cimelî della guerra di Crimea arrivata inattesa fin quassù e oggi gli sposi si fanno fotografare tra i cannoni arrugginiti che - casomai tornassero - puntano a monito le loro bocche verso il mare, con l’Avačinski innevato sullo sfondo.
Qui si rifugiava Griša in una baracca abbandonata con vista impagabile sulla baia, quando non vagava ruminando il suo verbo appassionato alle persone, agli animali, alle cose. Non dormiva o dormiva pochi minuti alla volta come i gatti. Cavalcava un cannone e ripeteva le sue giaculatorie dondolando il corpo a ogni respiro affinché l’effetto della parola entrasse meglio nei canali e nella carne e nelle ossa sì che tutto l’essere fosse coerente con il lavoro e con l’orazione e il corpo diventasse diafano e trasparente alla preghiera del cuore. Ricordava le parole della Vita di Francesco: “non pregava, il santo, ma divenne preghiera”. E si pacificava, esplodendo in un pianto dirotto, un pianto di felicità e di benessere. Un pianto continuo, come continua era la preghiera perché il dover essere non viene mai raggiunto se non per pochi brevissimi ineffabili instabili istanti. Un sentire che avrebbe voluto la permanenza dell’essere e che quest’essere doveva invece rincorrere senza posa. Per questo non stanno ferme le labbra e inseguono il pensiero non diversamente da Faust, con il suo “fermati, sei bello”!
Era una notte di luna piena al perigeo, quindi gigante come accade di rado. Ci si imbatté per caso (o per destino) salendo l’erta alla ricerca di pace e ispirazione come se quel biancore nel silenzio delle persone potesse ispirarlo, come un poeta, alla scelta più razionale di che fare della sua vita. La razionalità di un’emozione, non di un calcolo da partita doppia, dalla quale far discendere le scelte future. Poteva essere un eroe alla Jane Austen, in perenne ambivalenza fra le due strategie fino a quando un qual che di esterno, evento o persona, non avesse deciso per lui. Lo chiamava fato, ma erano scelte di quegli altri che abitavano in lui.
Qui lo trovò inaspettato, in quell’abbagliante chiarore lunare, come se fosse solo in quella situazione che potesse manifestarsi, addormentato come un bambino nel mezzo di un grosso cespuglio di ortiche che lo avvolgeva come una coperta amorosa. Aveva ancora indosso lo spolverino di sempre, non più in ordine e immacolato come lo portava al mercato e i capelli avevano riconquistato la loro disposizione anguicrinita come una testa di Medusa. Solo i piedi mantenevano una parvenza di decoro, bianchi e netti come appena nati senza peccato originale, quasi luminosi sotto la luna; probabilmente, era la sola parte del corpo alla quale dedicasse cure e pulizia perché i pellegrini camminano e i piedi devono essere sempre in piena efficienza, come un motore ben oliato e messo a punto. Eccedeva da tanto decoro la pianta, quasi nera e dalla pelle spessa e dura come una suola; in quelle condizioni, nessuna scarpa avrebbe potuto rivestirli e sarebbe anche stato inutile. Gli sedette poco discosto e ne osservò le labbra in movimento perenne come se, dotate di vita propria, ripetessero per suo conto l’eterno bisbiglio della preghiera mentre il corpo riposava o, forse, percorreva le scale angeliche sicuro come un ascensore.
Una nube oscurò per poco il forte chiarore e quello si svegliò e con un balzo si rizzò a sedere fissando sùbito nella sua direzione come se lo avesse visto da prima. Si alzò e lo nominò, non lo chiamò, usando non il vocativo ma il nominativo: in rapida sequenza drug tavariš priâtelʹ lûbovʹ, tutti sinonimi con sfumature d’uso del medesimo concetto: amico, compagno, collega, amore, come se una sola parola non fosse sufficiente; sempre eccessivo. Sedettero paralleli a fianco a fianco sui cannoni (a ciascuno il suo) guardando a lungo il mare in silenzio inondato dalla luna gigante, ancora bassa sull’orizzonte, con i suoi riflessi d’argento sull’acqua immobile tanto luminosi che lo costringevano a socchiudere le palpebre, non dotato come lui della plica mongolica a difesa, e luminose nuvole lontane che pesavano sulle alture come se queste volessero mostrare al mondo che soffrivano di mal di testa o che avevano compatti pensieri per il capo. Poi ruppe il silenzio perché qualcosa premeva per uscire.
«Lynà...», cominciò appena e l’altro balzò in piedi urlando «Pуса́лка! Берегиня! Rusalca! Bereghina!» e una sequela veloce di altre parole che dal furore sembravano epiteti, insulti violenti che gli non riuscì di capire. Agitato come un lupo sotto la luna. Continuava a gridare, veloce e incomprensibile, muovendosi infuriato in tondo e di qua e di là agitando le braccia finché finalmente si fermò esausto, sudato, il respiro affannato e lo guardava di sottecchi e con sospetto. Riuscì a riprendere il mormorio del cuore e tornò placido a cavalcare il suo cannone continuando a ondeggiare avanti e indietro.
Si sentiva intimidito e interdetto a proseguire. Aveva introdotto Lynà come grimaldello, per avere con lui un terreno preventivo di incontro comune per parlare poi d’altro, di ciò che più gli stava a cuore, visto che la conoscevano entrambi e Griša, immaginava, ben più e meglio di lui. Si era invece trovato di fronte a un rifiuto e una opposizione assoluti, come se la dolce Lynà fosse parricida, antropofaga, pluriprostituta e strega del demonio. Si chiese che cosa potesse esser mai passato fra i due, almeno per spiegare, se non per giustificare, questa reazione. Non trovando stimoli adatti a riprendere il discorso, s’ammosciò passivo e inerte accanto a lui e s’immerse nei suoi pensieri cercando di consolarsi, almeno, dell’umida brezza che saliva dal mare per sposarsi con tutti gli odori della macchia siberiana, e sforzandosi di non pensarci. Un modo di ritrarsi dall’ambiente come una chiocciola. O pensare, semmai, a Mèsjac... Ma era, nel profondo, agitato. Prese Griša l’iniziativa, con un discorso lento, in tono dimesso, usando del suo miglior russo scandito affinché potesse comprendere meglio.
«Non hai capito, compagno, nessuno ha capito - diceva scuotendo il capo - chi siano veramente quelle due, Lynà e Mèsjac, tranne io stesso, ma c’è voluto del tempo, tanto bene si mascherano. Delle due, Lynà è forse quella più pericolosa perché si nasconde dietro la mitezza ma anche Mèsjac non scherza e lavora sul lato patetico. La prima è infida e pugnala alla schiena, da femmina; la seconda è più diretta e ti taglia la gola di fronte, da maschio!».
Gli sembrava eccessivo. Sì, pareva l’una affidabile e materna, con quel taglio dritto degli occhi puliti e la gran voluttà dei capelli, anche se lasciava indovinare un carattere tenace e intraprendente e l’altra, forse, giocava un po’ troppo alla tenerezza che suscita la sofferenza della vittima, inducendoti a percepire in lei un fondo di disperazione da consolare, anche se aveva dimostrato impulsività e capricci da draghessa. Ma non gli sembravano altro che modi di essere del tutto legittimi o, al più, differenti tecniche seduttive che chiunque, all’occorrenza, potrebbe dispiegare. Lo interruppe ancora Griša, prendendola alla lontana e mettendola, in modo inaspettato, alla dottorale, sulla linguistica e sulla filologia.
         «Partiamo dalle parole, compagno - iniziò come tenesse una lezione - che sono sempre la chiave migliore e, a parte ciò che ci viene rivelato da Dio, sono tutto ciò che possiamo conoscere del mondo. “Rusalca” viene da ruslo, ruscello. “Bereghina” da bereg, sponda. Dunque, dee delle acque e di tutto ciò che scorre, che dà vita, dee pagane della natura, come le ninfe, le villi, le sirene, le fate, le Lorelei e le Melusine di tutte le culture e tutte le tradizioni popolari, emblemi di un mondo dominato dal matriarcato e regolato dalla luna e dotate di quel fascino pericoloso che annega i prìncipi nei balletti romantici. Dee della vita e della morte, fate assassine. Qui in Russia - spiegò - ma vale per tutte le lingue slave, abbiamo parole diverse per chiamare la luna. Quelle due non sono altro che vampire come Durgā, come Kālī, che gettano le loro reti ciascuna a suo modo come i due aspetti della luna, come se lavorassero in coppia, e si sono date nomi di battaglia, non nomi reali tanto che, se fossero reali, si tratterebbe di una coincidenza formidabile: Lynà è la luna bianca, la luna piena, dolce discreta e avvolgente come il fiume che annega; Mèsjac è la luna che sorge rossa com’è rosso il sole, nera come la luna nuova e secca come il fuoco dell’inferno. Due lune, due parole, due nomi, due sessi, due funzioni, due colori. Un solo intento: possedere e distruggere, com’è cómpito delle femmine. Due bereghine o rusalche, coalizzate».
Fece per obiettare qualcosa ma l’altro lo bloccò autoritario e impaziente e riprese la conferenza.
«Anche da voi è così ma ne avete perduto l’uso linguistico mentre da noi persiste ed è corrente: avete Luna e Luno, come il vostro dio Marte che è anche Deus Lunus, che quella gran puttana della Blavatsky collegava con Soma degli Indù e addirittura con Jahvé degli Ebrei, un dio che è insieme maschio e femmina... un abominio! Così come il sole è femminile e la luna maschile in tedesco (“die” Sonne e “der” Mond) perché così vuole l’indoeuropeo perché diverse sono le funzioni, una di creazione e l’altra di distruzione; un nome = una funzione: questo è il paganesimo degli dèi falsi e bugiardi. Ora stai bene attento - proseguiva la lezione - perché in russo Лунà (Lunà) è femmina e deriva da “luce” ed è l’astro bianco che vediamo nello spazio e che ispira i poeti ma Мèсяц (Mèsjatz) è maschio e deriva da “misura” ed è l’astro nero che non vediamo nello spazio, la Lilith dei Giudei, che nel tempo regola i ventotto giorni del menarca e il lavoro del contadino. La bianca e la rossa, capisci? Che bella coppia! Non mi stupirei se andassero a letto insieme... Mèsjatz è marito o fratello della fanciulla che rappresenta il sole. È il sole che insegue la luna nel cielo, non viceversa. È la luna maschile, e non il sole, il grande astro degli Slavi! Alla luna la generazione, al sole la bellezza e il sentimento ma i Bizantini hanno rovesciato le cose e se il popolo analfabeta usa ancora Мèсяц, i colti cristianizzati usano Лунà! Hai capito, adesso, chi sono le tue ragazze?».
Griša si fermò e prese un lungo respiro. Guardò benignamente l’ascoltatore e sussurrò dolcemente: «Questa non è una storia d’amore, compagno. Non lo è mai stata...».
          Ci mise un po’ a realizzare tutto il discorso ma alla fine sbottò. «Tu... tu non sei uno stàrec. Fingi di esserlo. Sei un imbroglio (voleva dire “stronzo” ma non gli veniva il termine russo). Un furbacchione. Sei un qualche professore, antropologo o linguista o chissaché, assoldato dalla Lubianka, una spia, un agente dell’FSB sotto copertura dello juròdivyj! Sai che cosa penso? Penso che Lynà ti abbia scaricato in qualche modo e che adesso tu stia solo cercando di vendicarti diffamandole entrambe. Forse ci hai provato anche con Mèsjac e ti è andata male anche con lei...».
          Griša, ammesso che così si chiamasse, allargò il viso a un forte sorriso che gli illuminò il volto e biancheggiavano le zanne dei denti e ridevano gli occhi mongolici fra le grinze laterali, stretti in una fessura minuscola nella quale scompariva il nero della pupilla e diede in un’omerica squassante risata. «Guarda! - disse poi - se sto mentendo!» e accennava al sentiero.
        Guardò, e non credeva a ciò che vedeva. Si stagliavano nette Lynà e Mèsjac trasfigurate bellissime improbabili e inaspettate nel chiarore lunare salendo lente dal fondo del sentiero passo dopo passo dietro la schiena le braccia, ondeggiando sui lombi su per la collina come in una visione di sogno, come esseri divini per le quali il tempo si fosse fermato intorno a loro e fossero esse stesse a crearsi intorno il tempo, che avanzava con loro e curvava lo spazio intorno. Un tempo che non era quello nostro ma che era il tempo del mito, il tempo delle stagioni, della semina, del raccolto e della neve. Non si nascondevano sotto le magliette-pantaloni della sciagura ma si presentavano, si offrivano splendenti, addobbate come regine, in grande sfarzo; una scena antica, come forse nei villaggi, un tempo, nelle sacre feste della primavera, nei riti della fertilità, ciascuna nel costume delle rispettive tradizioni, la russa e l’armena e prevalevano varianti di rosso nell’una, di bianco nell’altra, arcobaleni di sfumature pastello, con abiti lunghi, eleganti, ricamati con fili d’oro e d’argento, stivali arabescati che occhieggiavano dagli orli, coroncine di fiori sul capo con i capelli verde smeraldo come alghe del mare, raccolti a crocchia e treccine sui lati. Silfidi, ninfe, spose e regine da incanto. Il tempo della fiaba. Il tempo del teatro. Non quello della realtà. Cantavano a due voci
Měsíčku, ne nebi hlubokém...
e la luna danzava intorno inondandole della sua eco luminosa.
Piccola luna, così alta nel cielo,
trafigge la tua luce da lontano,
erri tu per il vasto mondo,
le cose vedi degli umani.
Piccola luna, fermati un istante,
dimmi nascosto dov’è il mio amore!
E digli, piccola luna d’argento,
che per me l’avvolgi fra le tue braccia,
e digli che, per un istante almeno,
egli si ricordi di me in sogno.
Rischiaralo, laggiù, molto lontano,
e digli quanto, oh quanto l’attendo!
Riconobbe la melodia di Dvořák. «Senti bambino? Měsíčku, piccola luna cantano in ceco! - urlava Griša - měsíc non luny... Lo senti, bambino? Vengono per vendicarsi e per uccidere, le streghe!».
E cominciò a segnarsi della croce all’uso antico, proibito, e lo faceva forsennato, da epilettico, invasato dal demonio come tutti gli strumenti della volontà di dio. Quelle femmine non erano parte del gioco come le adepte dei Chlysti, non erano compagne dell’uomo ma antagoniste come, appunto, il demone che nega. Noli me tangere - sennò che succede? La magia del segno difende, pensava. Quante tentazioni, Griša, ha subito il tuo cuore? Non la seduzione della femmina o d’altra cupidigia, come di un sant’Antonio qualunque.. Il diavolo ti tenta distogliendo la concentrazione, allontanandoti dalla fissità del pensiero del cuore - quello della mente, si sa, divaga ma il cuore non conosce che un solo obiettivo. Il cuore è assoluto; la mente no - per questo le femmine vincono alla fine perché quel che sentono è assoluto, è la legge, non una legge...
            L’altro guardava, perplesso, il fascino che saliva su per la collina irresistibile e non capiva bene che stesse accadendo, preda di contrasti della percezione. Perché venivano sì sorridendo ma la chiostra di quei denti dava riflessi candidi come le zanne di un lupo e da quei denti era attratto e perché le femmine sanno possedere come nessun demone mai - e gli piaceva perché c’era abbastanza femmina in lui da sentirsele consustanziali, perché nessuno ti prende se non è già dentro di te. Svanire dentro di loro, come in un coito perenne e farsene assorbire come assorbono quelle lo sperma, e metabolizzano. Dov’era il dolce titubare di quello sguardo? E la mestizia in quello dell’altra? Era inoffensivo; perché ucciderlo?
            Ma tutto accadde in fretta e lentamente, troppo in fretta e troppo lentamente, come in quel tempo infinito, violento e inesorabile, che impiegava la mannaia a calare sul collo che troncò. Prese un vento impossibile e irreale come solo nelle fiabe, a soffiare impetuoso dal mare, un turbine che girava in tondo e li cozzava contro e incontro, come se fosse la natura ad agire per loro, costringendone le braccia ad accogliere e le mani a respingere, fiati nei fiati e abbracci senza respiro a sciogliersi e unirsi, tutto un fuggire per essere inseguiti, un attaccare per essere ghermiti, un balletto per l’offesa e per la difesa, che si dispiegava come un sabba antico tra le cupe fronde della collina invasa da quel chiarore violento, eccessivo. Accadeva però un fatto strano. Quelle coppie lottavano sia in modo frontale sia trasversale: rusalche contro i due e i due contro di loro, chi per afferrare e chi per sfuggire, ma lottavano anche i due fra di loro, e quelle fra di loro, per il possesso dell’antagonista, come se ciascuna li volesse entrambi, in parte per amarli e in parte per annientarli e lottasse ciascuno in parte aborrendole e in parte desiderandole. Vincere e morire, dominare e subire, non atti successivi ma contemporanei. In quattro sole unità, tutto il complesso inestricabile dei rapporti amorosi. Una forma di antropofagia perché non puoi non amare chi ti stai mangiando. L’intrico degli arti e dei corpi non aveva fine, un gordiano che solo un atto di violenza poteva sciogliere. E quest’atto avvenne.
            Non è stabile no la terra, sia come suolo sia come pianeta. Da tempi immemorabili, la placca Pacifica si nasconde, chissà perché, sotto quella di Ohotsk, subduzione che ha creato l’arcipelago delle Curili e che ha scavato la fossa Curili-Camchatka per più di mille chilometri e profonda più di dieci. Strofina strofina, finisce che la pelle ha delle eruzioni, con più di centosessanta vulcani nella penisola, dei quali circa una trentina continua a lamentarsi e sembra che la frequenza delle manifestazioni d’irritazione sia destinata ad aumentare. Così accadde in quella notte di luna, quando si decideva dei destini del quartetto: mezzo minuto di sommovimento del quinto grado che non fece danni ma fornì quello scossone emotivo che azzerò la situazione. Quel terremoto aveva agito come una voce più forte, sonora e potente di qualsiasi altra: una voce imperiosa che comandava dall’alto dei Cieli, o dal profondo della Terra, imponendo: “Basta”! Bastò e si fermò anche il turbine del vento. Se i due uomini ora erano immobili, ansanti, sbigottiti e impegnati a mantenere un equilibrio precario, le rusalche si presentavano invece al massimo della forza e della seduzione, e il sorriso di trionfo mostrava come il tremore della terra ne avesse potenziato le capacità. Padre luna, ormai alto nel cielo, inviava raggi amorosi alle sue creature come a voler baciare e avvolgere le figlie predilette in un abbraccio languido e pervadente, sì che le due apparivano come sotto un riflettore da teatro incisivo, contornante, ad altissima temperatura, che dava quella luce fredda da effetto, appunto, lunare.
Sembra un incanto il bosco sotto la luuuna,
favole appassionate narra per teee, eccetera.
In più, saliva dal mare una nebbia da avvenzione per escursione termica, che alcuni chiamano Caliga e altri Lupa, che dava ai loro contorni, pur netti, un’apparenza flou che ammorbidiva l’immagine donando, se possibile, maggiore luminosità a quella pelle di seta e a quella carne tonica, da fanciulla nel fiore. Insomma, quelle due si mostravano ed erano irresistibili per chiunque. Lo furono anche per loro. Fu Griša, nella sua candida semplicità, a subire o conquistare la trasformazione (come il pesce al mercato) più radicale e definitiva, la sua seconda nascita, così vicina alla morte, perché strisciava sul terreno da peccatore irrimediabile qual s’era riconosciuto, così ontologicamente separato dal suo dio trascendente (è da millenni che lo costruiamo così), da qualunque dio, al quale nessuna setta dei Chlysti, così come infinite altre, avrebbe mai potuto avvicinare nemmeno da lontano, e andava ripetendo invano disperato la sua giaculatoria, impotente a proteggerlo contro la forza che la femmina sa estrarre dall’oscuro di se stessa e lanciare come un giavellotto a colpire, ferire, straziare. L’altro lottava contro i tanti io che lo pervadevano e balbettava inerte, immobile come una statua, indeciso su di sé, sulla situazione, sul mondo. Un po’ si sentiva bogatyr in lotta per la salvezza della Rus’ (quindi, tutto il mondo) contro la baba-yagà, la strega delle fiabe che vola fuor di casa zampe-di-gallina a cavallo del mortaio e cancella la strada del bosco con la scopa di betulla d'argento... e un po’ si sentiva Iokanaan ansioso di farsi decollare e riporre, riposare su un piatto d’argento... Incantarici, attraenti eppur minacciose, un velo di profonda tragica tristezza negli occhi dolci innamorati e pericolosi, avanzavano intanto le due inesorabili e cantavano la canzone del rimpianto.
Né viva né morta, né donna né ninfa.
Sono uno spirito maledetto!
Invano sognò fra le tue braccia il mio povero amore.
Una volta ero colei che ti amava,
ora posso solo causarti la morte!
Perché m’hai presa fra le braccia?
Perché le tue labbra mi hanno mentito?
Ora sono solo un fantasma rischiarato dalla luna,
destinato a tormentarti per sempre!
Ogni notte istigherò i tuoi sensi.
La mia femminilità fu disonorata.
Insieme al fuoco fatuo ti trascinerò verso il fondo.
Lo so, lo so! Hai provocato la passione,
una passione che io più non posseggo.
Ma, se io adesso ti baciassi,
saresti per sempre perduto!
Forse il tuo comportamento è stato, formalmente, corretto, sembravano dire, ma puoi giurare che, nemmeno dentro di te, non ci sia stato mai un desiderio di sopraffazione o di tradimento, oppure che la tua coscienza infantile, svagata e illusoria non abbia promesso ciò che non poteva mantenere? Nessuno può rispondere: sì.
Una fanciulla nel fiume s’è gettata
perché il suo amato l’aveva abbandonata
s’è annegata per la disperazione
e su quel nome una maledizione
ha scagliato, morendo sconsolata.
E l'hai sentite tu, sorella pesciolino,
Le notizie qui nostre, del fiume?
Che ieri sera una bella fanciulla s'è annegata,
E annegando l’amante ha maledetto...
E così li afferrarono come foglie e fuscelli che volteggiano nel vento e li trascinarono con sé in alto tra le nubi, perché solo abbracciato a una femmina puoi volare così in alto, sotto l’occhio del deus lunus sempre più torvo e incattivito per l’oltraggio consumato alle luci dei suoi occhi e trascorsero il cielo notturno fin verso il vasto mare. Dolce e chiara era la notte e senza vento e sembravano stelle comete in salita all’empireo, stretta ciascuna al suo e alla sua ciascuno avvinghiato, come se la morte fosse la sola certezza e speranza cui potessero, volessero aspirare. E caddero come un Fetonte nella baia e si disse, poi, che questa fosse stata l’origine fatata dei tre faraglioni noti come i Tri Brata, i Tre Fratelli all'ingresso della baia vicino a capo Majačnyj, a trecento metri dalla costa, contro lo sfondo lontano dei quali si fanno oggi fotografare gli sposi sulla collina Nikòlkaskaja presso i cannoni della guerra di Crimea.
Si dirada di nubi lo strato scorrente.
O stella della sera, stella così dolente,
Il tuo raggio inargenta le pianure sfiorite,
Il golfo che sonnecchia e le rocce annerite.
Tre perché lui si salvò, mollando incerto la presa all’ultimo istante e a stento si salvò a nuoto.
Ma avrebbe preferito annegare. Forse.


Roma, 17 gennaio - 6 febbraio 2017

[Poesie da Gino Bechi, Sergej Esenin, Jaroslav Kvapil, Michail Lermontov, Libro dei salmi, Aleksandr Puškin]

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