sabato, ottobre 08, 2016

Cara, ti scrivo


Cara, ti scrivo.
Già l’ho fatto, spesso e a lungo, fiumi e valanghe in prosa e in verso, ottenendo silenzio. Non posso evitarlo. Non ti piace che scriva perché non puoi ribattere ma solo subire fino alla fine dello scritto - del discorso che non c’è perché di questo discorso non c’è il tempo né lo spazio per farlo (sempre di corsa, sempre oberata di appuntamenti, sempre in fuga - da me?) né, soprattutto, perché non c’è, almeno da parte mia, quella sensazione di fida complicità calma e distesa che consente di scambiarsi pensieri, pensieri segreti e parole pubbliche con tutto il tempo che serve, e serve un tempo lungo, fatto di vicinanza, frequentazione costante e assiduità l’uno con l’altra. Conoscersi a memoria. Non c’è perché ti sottrai a questa frequentazione.
Immagino lo sbuffo vedendo l’ennesimo scritto che ciò non ostante ti impegnerai a leggere, sapendo che le accuse saranno maggiori dei perdoni, questi maggiori dei grazie, che sono maggiori delle estasi. Ah, quest’estasi che però c’è sempre perché basta la tua immagine, anche senza corpo, immagine del pensiero, che ci vive dentro e intorno ed esalta ed eccita anche, come se fossi qui...
Quindi scrivo per non poter parlare, perché non posso parlare, non possiamo parlare, perché ci sono parole che non si possono pronunciare a tutta voce a comando e in dieci minuti, ma sussurrare quando i corpi da tempo sono distesi, abbracciati, e si confondono i respiri e si mescolano gli odori. Lentezza. Tempi lunghi. Queste parole non vogliono lo specchio dell’altro posto di fronte ma il contatto dei fianchi, la penombra, il silenzio - e calma e lusso e voluttà... Queste parole non saranno mai dette perché mancherà (sempre?) la voluttà dell’amicizia, della vicinanza, dell’abitudine alla frequentazione di ore e di giorni, del contatto dei fianchi... perché due sono insieme non quando sono di fronte e vanno in direzioni opposte (di fatto, si scontrano e il cammino dell’uno ostacola quello dell’altro), ma quando sono affiancati e procedono nella medesima direzione. Affiancati, non ci si guarda ma ci si vede, ci si sente, percepisce in altro modo. Queste parole sono, allora, dette di fianco, non di fronte, come se tu mi fossi accanto. Sono parole dette alla compagna, non all’avventura, non all’amante né alla fidanzata - sono dette alla sposa; a quella che non vuoi essere. Non posso far altro, dunque, che scrivere. E tu leggere cercando di immaginare il suono delle parole.
Scrivo perché ho bisogno di parlare con te, di averti come ascoltatrice seppur differita e, scrivendo, mi sembra di averti vicina, qui, accanto (ma va bene anche di fonte) che mi ascolti e fai tesoro delle mie parole. Scrivo perché mi legga, perché non voglio scrivere né parlare con nessuno se non con te. Non è bello avere orizzonti così limitati, ma il mio lo è e coincide con te, anche se io non sono il tuo orizzonte (se lo sono, fai del tuo meglio per non rivelarmelo). Come con Godot, due soli personaggi in scena. O Krapp, o anche Winnie, un personaggio solo. La scrittura mi avvicina; è il solo modo che ho per averti con me. Tutto nella mia testa, nel mio corpo. Il tuo non c’è; nemmeno la testa?
Scrivo di cose che sono dette “dalla parte mia”, che dicono di me, ennesimamente di me, sempre e solo di me, come il flusso di parole (inutili?) con le quali ti ho subissato finora, sostanzialmente per dire e lamentarmi della mia situazione, perché tu non dici e il più delle volte parlo a me stesso e sembra che queste parole cadano nel vuoto. Il più delle volte, in realtà, è come se tu parlassi, perché ritengo, presumo, insuperbisco di sentire, capire, quel che non dici. Non serve molto. Basta un clic, un gesto, uno stringere il pugno, un premere i labbri, un occhio che si sgrana, una testa poggiata un po’ di lato, un volgere lo sguardo, un mezzo sorriso, un occhio chiaro e un occhio scuro, un toccarsi i capelli, un dito veloce sulle ciglia, un soffio di respiro e io sono tutto dentro le tue parole che non dici, dentro le cause che ti impediscono di parlare, le paure da non dire, e i ricordi, le situazioni, le aspettative segrete per tutti (anche per me?)... Io ci sono, sono qui in mezzo, circondato dal tuo silenzio (assordante), che dice di più non dicendo, ma - ma - ma non dice, non porta avanti, non impegna, non progetta né, tenace, quel progetto comunque rivela perché gli spiriti che ci aleggiano intorno e succhiano la vita non abbiano ad arricchirsi di quel pensiero, quelle parole, e tutto ci rivolgano contro. E le ottengo da me queste risposte, queste parole, sono tue ma me le dico da me per sentirle dire, una buona volta da qualcuno, e ascoltarle con la mia stessa voce.  Ma non serve dire, se l’altro capisce.
Così, la lingua devien tremando muta...; ma non è chi la mira colui che non sta parlando ma è ella stessa che non sa, vuole, osa dire nulla di sé, proprio perché venuta di cielo in terra a miracol mostrare - e d’umiltà vestuta, eccetera, perché non c’è nulla da dire perché, dicendo, le possibilità diventano realtà, scadono a matematica, stocastica, ingegneria, diventano oggetti, sassi sul sentiero che saranno sempre un ostacolo, che non puoi calciar via per quanti ce ne sono. E i sassi vanno respinti, confutati, a rischio di cadere in contraddizione. E se il sasso non è quello che sembra? Meglio non fidarsi. Se non dici, la nebbia li avvolge tutti e tu con essi e tutto si confonde con il caos delle origini e svanisce come nulla fosse mai nato. E la realtà ritorna da dove proviene, ritorna a essere una possibilità e niente più, e in più infinita com’è ogni possibilità, non ridotta, concretizzata a un che di finito e limitato e sasso e ostacolo, nel quale non ci sentiamo rappresentati. Metafisica del silenzio. Troppo silenzio, come Madonna, che silenzio c’è stasera...
Be’, c’è sasso e sasso. Quelli puramente materiali li si scalcia con un volteggio. Chi non se ne va sono i sassi del pensiero. Contro quelli non ci sono risorse.
Non parli ma immagino e forse so che tu capisci, che la mia posizione ti è nota e credo - credo - che ti dispiaccia. Se non altro, perché ne ho parlato a bizzeffe, anche troppo. Tu stessa mi hai invitato a non scrivere, ma che fare se le cose dette non hanno mai risposta? La risposta è l’aggancio, il fulcro del pensiero: senza di esso il pensiero gira a vuoto, solo con se stesso, solo dentro se stesso. Solitudine. Come con i tarocchi: chi taglia il mazzo?
Che interpretazione dare? Un eccesso d’umiltà vestuta? O la coscienza che questo mio disagio di vivere non puoi né sai (se lo vuoi) lenire, risolvere? Così, mi faccio la domanda e mi dò anche la risposta, una masturbazione niente male. A ogni domanda, infinite risposte possibili, ma in definitiva sono solo due, quella del sì e quella del no, mentre a essere veramente infinite sono le spiegazioni, le ipotesi causali, quelle che spiegano il comportamento che è come un imbuto, una via stretta che si allarga, nel “passato” causale, a ventaglio fino a quantità innumerevoli. Una domanda, molte risposte, da valutare, pesare, discutere, ma sempre nel campo del possibile, senza indizi certi della realtà. Tutto sempre nella mente.
E così, nessuno sa il tuo progetto. Chissà se questo progetto mi riguarda? Ne dubito. Un tempo lo speravo perché ritenevo che fosse identico al mio e su questa identità avevo contato, su di essa avevo puntato alto, il più alto possibile. Ma tutti gli indizi finora raccolti in quasi sei anni di vita negano questa possibilità, che non diventerà mai probabilità e nemmeno realtà. Dunque sono solo e mi sono illuso di non esserlo? Di non esserlo più? Ecco la verità triste: non sono in grado di esistere senza di te mentre tu sei abituata, per tua scelta, a essere senza nessuno. Credevo che, incontrando me, avresti cambiato rotta. Non sono evidentemente così importante, per te e quindi per nessuno. Se non lo sono per te, non lo sono per nessuno. Ti piaccio, lo so, me lo hai detto. Ma non abbastanza da dividere tutto con me. Niente viene condiviso, come nella separazione dei beni: tu la tua vita, io la mia, incontrarsi ogni tanto quando garba a te e riesci a organizzarti (sempre più raramente) con grazia e con stile. Non sono io lo spasimo dei tuoi sensi o, se lo sono, questo non deve arrivare a stravolgere la tua vita. Ci sono cose più importanti che spasimare per me (l’elenco lo conosci) e, soprattutto, dimostrare questo spasimo. Spasimo segreto perché hai scelto una vita segreta - di fatto, la menzogna. Forse perché non ti violento, non ti obbligo con la forza, non ti perseguito né ti umilio. Sono, lo vedi e lo sai, al tuo servizio. Un amore servile - che vergogna! Forse vuoi solo uomini che ti facciano del male. Forse ti sentivi viva quando subivi - mai così viva. Forse ami (e temi) chi ti strattona: ti senti, allora, desiderata in modo sanguinoso, violento, quasi omicida. Questo ti dà valore. Sogni il sangue perché ne hai terrore. Forse solo chi ti insanguina entra nella tua vita. Chi ti aggredisce, chi ti perseguita. Così è stato, e di questi sei diventata amica... E ogni volta che ti accade di incontrare una tale persona, il brivido del pericolo, e il gioco dello sfuggirvi, questo è impagabile... Così, chi ti fa del male è, per te, forse un aiuto per rafforzarti nel continuare a disprezzarlo e restare quel fiore puro non macchiato di sangue che vorresti essere, quel sangue tanto desiderato. Non ti dò questo brivido. Io non ti ferisco perché non potrei mai farlo, né vorrei. Per questo conto così poco.
Tutti questi forse non fanno una sola verità. Sono arzigogoli di una mente incatenata che non trova risposte adeguate, di una mente stravolta dalla tua esistenza. Un avvocato o un notaio saprebbero darmi la soluzione, soluzione che sarebbe negativa: se non puoi contrattare alla pari, direbbero, rinuncia all’affare; non fare il passo più lungo della tua gamba e tutte le altre oscenità ragionevoli degli avvocati e dei notai. Se non puoi stare alla sua altezza, ritirati e rifatti una dignità (già gravemente compromessa) altrove. Lasciala perdere: non sa amare né vuole farlo se non in questo suo modo che per te è insostenibile. Di fatto, alla prova dei fatti, non ti ama. Ti accusa. Non ti aiuta. Ti lascia affondare. Aiutarti significherebbe impegnarsi alla pari, cosa che non sa né vuole fare. Spera che tu, almeno, visto che non le fai violenza, la tradisca sfacciatamente - poiché non lo fai, non vali nulla, se non come oggetto di accuse sognate, quando è ella stessa a essere, da sempre, nel torto della mancanza d’amore. Così fa il ricco, così fa il potente: umilia e domina. Forse a te piace, direbbero gli avvocati-notai,  essere umiliato e dominato... allora, per te non c’è speranza, e rinuncia sùbito ai tuoi sogni di una vita felice. Ma se non è così, fuggi lontano. Non sei presente, lo vedi da te stesso, in nessuno dei suoi progetti, nessuno. Se lo fossi, te lo direbbe e parte del vostro tempo sarebbe impegnato a progettare, sognare, organizzare... Solo la sua vita ha diritto a essere felice, perché se lo può permettere. Che bella felicità! Così, quando sarai fuggito (sanguinante ma vivo), ella potrà dire che non valevi nulla, che non avevi capito nulla e questa disgraziata parentesi della sua vita potrà trionfalmente e dolorosamente esser chiusa, e tutto tornare nell’ordine. Tornare a sognare il sangue senza farsi insanguinare.
Mi aspetta un’altra notte insonne.

Roma, 8-9 febbraio 2016

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