lunedì, settembre 25, 2006

Domenica 20 settembre 2006. Il ritorno

E per ora è finita. Alle 9 ci attende Lena per darci un passaggio all'aeroporto con il pulmino Rotary della biblioteca. Siamo stati assistiti sempre: Irina a Mosca e qui, qui Lena, poi ancora a Mosca dove un altro pulmino di altra biblioteca ci porterà al transfer dei voli internazionali (sono solo 7 chilometri ma si può anche perdere facilmente la coincidenza). Ci attende il recupero complessivo di 11 ore di fuso orario e un bel po' di ore in parcheggio in aeroporto in attesa del volo per Roma.
Sheremetievo dei voli internazionali è strano: edicole ma nessun giornale straniero, Internet a ben 200 rubli l'ora, cancelli di dichiarazione alla dogana per l'espatrio non assistiti (mentre lo sono quelli di chi non ha niente da dichiarare). La dichiarazione alla dogana sembra, poi, particolarmente difficile, tanto che crocchi di viaggiatori compilano la dichiarazione dandosi man forte l'uno con l'altro. Noi siamo di quelli che non hanno niente da dichiarare; o, almeno, qualcosa ci sarebbe (un po' di caviale comprato al mercato di Petropvlovsk a 24 euro al chilo) ma un aziendale habitué del viaggio in Russia ci consiglia in puro lombardo di non preoccuparsi: non sono più i tempi dei soviet, dice.
L'attesa del nostro volo dura diverse ore. Ascoltiamo le conversazioni e giochiamo al "a chi somiglia chi" con le facce dei viaggiatori in attesa. Ogni tanto esco dall'aeroporto per fumare.
Una biondina anglofona con bambino mi chiede se il pupo dà fastidio. Certo che no, e gli sorrido. Ci dice che certamente non siamo russi (infatti, la conversazione è stata da sùbito in inglese...), perché, dice, i russi non sorridono mai ai bambini. Mi accuccio e il pupo mi viene incontro fiducioso, forse stupito anche lui di un estraneo sorridente. La madre racconta di essere russa e che sta raggiungendo il marito, un americano, negli USA.
È l'ora della partenza dell'aziendale habitué, che viaggia con un amico, la giovane moglie e i piccoli figli di questi. Poco dopo ritroviamo la donna che sta con un certo magone davanti ai cancelli del check-in: marito, figli e amico aziendale sono partiti per l'Italia ma lei è rimasta qui, e rimane di vedetta finché non li vede scomparire alla vista. Come mai? È cittadina russa e anche cittadina italiana per matrimonio: poiché il passaporto italiano non era in regola, è partita con quello russo ma ora, al ritorno, non la fanno partire perché il passaporto italiano non è in regola. Che c'entra? chiedo. È così, risponde. È una pratica, dice, lenta e difficile, da impiegarci almeno un mese; per fortuna che ha un parente che lavora nei passaporti, per cui le basterà una sola settimana. Fortuna che ha casa a Mosca. E dice che i controlli sono, per lei, un po' più accurati, perché è anche mussulmana... Ah, dico io, allora è certamente una terrorista! Ride di gusto e si affretta a salutare con il braccio la famiglia che si allontana. Arrivederci e buona fortuna.
Ci allontaniamo anche noi per il nostro volo. In Russia, magari sì e anche presto - in Kamchatka, però, quando mai più? La favola finisce con il classico "stanchi ma felici della bella domenica trascorsa in gita"...

Sabato 18 settembre 2006. Ai tre fratelli

La baia di Avacha è, come detto, grandissima e ricca di insenature, con diverse navi mercantili alla fonda. Elena conosce il master & commander di un'imbarcazione ormeggiata nel porto militare, che può portarci a esplorare la baia fino al suo sfociare nell'oceano per poche migliaia di rubli. Servono però anche i nostri passaporti perché tutta la zona è sotto controllo militare. L'altro ieri alcuni russi del congresso hanno potuto visitare una base di sommergibili (questa è la Maddalena russa...) ma non noi ché siamo stranieri e, ancora una volta, non si sa mai... Meglio così, perché dei sottomarini non importa a nessuno, ma una bella navigata per la baia, e in superficie, è più che benvenuta.
Ci accompagna in macchina al porto militare Igor con Maxim e la nostra Elena. Lei verrà con noi ma i due uomini di casa no: andranno a farsi un bel giretto. Con Elena viene anche una signora (per me è la fidanzata del master & commander con la figlia - di lui? di lei?). Si sale su un peschereccio arruginito e ci si cala su una pilotina non meno antica. Sul quadrato di poppa c'è però una bella graticola per braciare i pesci. Elena e l'amica preparano sùbito il pic-nic: olive, spratti affumicati e sott'olio di girasole, conserva di felci, biscotti salati, dolcetti e l'orrido liquore dolce già provato ieri.
La barca sfila lungo la costa della baia verso il mare aperto, verso i faraglioni che chiamano "tre fratelli", aghi piantati nel mare a dimora dei gabbiani. Altro isolotto è chiamato "coccia di morto" (ovviamente, in russo) e, al ritorno, seguiamo l'altra costa, più accidentata e articolata, con grotte e archi sul mare. Si vede qualche foca o leone marino che nuota con la testa appena fuor d'acqua. E gabbiani e folaghe.
Cala improvvisa una nebbia che nasconde tutto e la temperatura si abbassa di colpo. Ma la barca usa un navigatore satellitare che traccia la rotta e disegna il profilo della costa. Il master & commander mi ficca in capo il berretto da capitano, mi pone al timone e mi presta la sua pipa: vengo foto-immortalato nelle vesti del comandante. Cerco di seguire la rotta tracciata dal satellite, ma è faticoso, non so se devo girare la barra a destra o a sinistra quando la barca si allontana dalla retta via. Me lo spiega ben lui in russo ma non capisco...
Lascio perciò la mia ahimè breve funzione di manager rimettendogli in testa il suo berretto e torno a ingozzarmi di spratti, veramente buoni. Quando lavoravo all'associazione Italia-URSS ne vendevamo a quintali, nelle loro scatolette tonde. Intanto, osserviamo il progredire della nebbia che a poco a poco ricopre tutta la baia.
Sulla terraferma, Igor e Maxim non ci lasciano ancora andare e ci portano in macchina su una collina prospiciente la città, con la vetta coperta di antenne radio e deltaplani in volo. Da lì si vede un panorama amplissimo: la città alle nostre spalle a est e la foce-delta dell'Avacha a ovest, con il sole del tramonto e la nebbia che si espande inesorabilmente. Sullo sfondo, il Viluchinski che abbiamo affrontato ieri.
Grazie Elena e grazie tutti. Promette di venirci a trovare in Italia; tempo fa, accumulando i soldi, la famiglia ha girato la Spagna, e l'Italia è d'obbligo. Speriamo di sì, perché Elena è davvero simpatica e cordiale.
In albergo ci attende una signora che ci ordina in russo di andare al bar per cenare. Non abbiamo fame con tutti gli spratti trangugiati, ma l'invito, seppur cortese, è perentorio. Ed è, effettivamente, una cortesia: l'organizzazione ci offre la cena e pagheremo solo le bevande. Poi a letto presto per preparare le valigie, ché domani Lena sarà qui già alle 9 per il passaggio in aeroporto.

Sabato 16 settembre 2006. Viluchinski e bagno selvatico

Il congresso è finito e tutti gli altri (e anche Irina - ti rivedrò? chatteremo? chissà!) sono partiti; non noi. Elena, docente d'inglese alla locale università e reclutata a hostess plurilingue per il congresso, ci organizza con il marito Igor e il figlioletto Maxim, per sua cortesia, i prossimi due giorni di permanenza: l'accordo è che divideremo le spese. Oggi pic-nic quasi sulle falde del Viluchinski, vulcano ben visibile dalla baia e, a quanto si dice, inattivo. Su 30 vulcani della Kamchatka 29 sono attivi e quello che resta è, appunto, il Viluchinski, e andremo a vedere se è vero... senza dimenticare i consueti costumi e asciugamani. L'esplorazione pare promettente.
La macchina di Igor è, come la maggior parte di quelle viste qui, una trazione integrale usata comprata in Giappone, e dunque con la guida a destra. Costeranno certamente di meno, ma la guida a destra in un paese dove non si va a sinistra (!) può portare non pochi problemi, e nei giorni scorsi abbiamo visto diversi incidenti dovuti a difficoltà di sorpasso.
[da aggiornare]

Venerdì 15 settembre 2006. Festa di chiusura

Ieri e oggi senza particolari avventure, se non quelle legate ai tempi e ai contenuti del Congresso, se non altro per seguire la presidenza di Paola nel pomeriggio che conduce, manco a dirlo, benissimo e che poi, quando è il suo turno di parlare, viene necessariamente interrotta ogni tanto dall'interprete che deve rincorrerla per tradurre in russo il suo rapido profluvio verbale. Poi chiusura della conferenza, con ringraziamenti, sfottò alle autorità e distribuzione di regali.
Venerdì sera, però, è anche in calendario la festa di chiusura, scarrozzati con il solito pullman scortato, fino a un ristorante-balera. La bibliotecaria ospite della conferenza, una moretta di mezz'età ma vivace e spigliata, s'è cambiata nel suo ufficio in un batter d'occhio: si è anche sciolta i capelli e indossa un abito da sera che, snella com'è, le sta benissimo - al punto da non riconoscerla se non si fa riconoscere lei.
Ma prima... gita sociale al mercato della città (anzi, a uno dei mercati). Amo le gite ai mercati. Servono a capire, meglio di qualsiasi altro meccanismo (forse, seconde solo alle gite ai cimiteri) l'aria che tira nella popolazione. Che cosa pensa, come si gode (o non) la vita, se è morta o se è viva nell'anima, e cose simili.
Due autobus con la solita polizia di scorta. Prima un giro per i luoghi ameni della città: le colline panoramiche, il porto visto dall'alto, le teleferiche arruginite che, in realtà, sono skilift per gli abitanti che d'inverno salgono sui monti circostanti per fare discese a rottadicollo. La neve è sempre tanta, anche 3 metri, per cui la mattina ci si butta giù dalla finestra del primo piano... e l'ultimo pianta una pala davanti a casa perché il primo che torna deve, se vuole entrare, spalare...
Ed ecco il mercato. Ricco. Neanche l'ombra dei mercati dei tempi andati. Tripudio di forme e colori vegetali e di spezie. E il pesce. Specie mai viste, ma, soprattutto, storioni, salmoni (cinque specie esclusive), aringhe grosse come tonni. Tutto seccato, affumicato, filettato, salato. E il caviale rosa in quantità mai viste. Secchi e bigonci colmi. Te ne mettono una cucchiaiata sul dorso della mano e tu assaggi, per scegliere il migliore, da quello più rosa a quello più giallo, con tutte le gradazioni intermedie. Un paradiso. Alcuni dei nostri co-convegnicoli comprano a tutto spiano; si vede che i prezzi sono buoni. Comprano anche convegnicoli che vengono da lontano, da Mosca, da Pietroburgo. Si fanno la scorta. Viaggeranno in aereo con buste di plastica che ospitano fasci di carta che avvolgono animali secchi. Ci sono anche piccoli banchi, domestici, appoggiati su carrozzine da neonati, che vendono la poca frutta o verdura dell'orto. Non compro nulla ma fotografo il bendidio: ho già impegnato mezzo chilo di caviale rosa da una della biblioteca del convegno. Sono curioso di vedere in quale confezione me lo darà, visto che devo viaggiare molte ore in aereo.
Ed ecco il ristorante, moderno, non lontano dal mare, che dev'essere anche qualcosa di più, viste le proporzioni: albergo, balera, o chissà che.
Entriamo. Tavolate immense con i nomi scritti ai posti e tutta la cena già sciorinata davanti: aspic, vol-au-vent e tartine infinite e deliziose, di pesce, di carne, di verdura; e caviale rosa e vino bianco e rosso e, naturalmente, la vodka. Fioccano i brindisi: ogni volta ci si inventa a chi brindare e poi giù tutto d'un fiato, e si ricomincia. Anche Paola, che inutilmente tenta di farsi passare per astemia...
Poi il lato retorico, immancabile, probabilmente, nell'ospitalità russa. Vengono distribuiti altri premi. Si fanno discorsi ampollosi dove le parole Rossìa, Naròdnaia, Kamchatska, Bibliotèk, e simili vengono ripetute molte volte. Ci si abbraccia e ci si bacia (e un premiato impone il "bacio alla russa" sulla bocca della bibliotecaria: a quanto pare questa tradizione non esiste più). E si ricomincia. Irina e io ci scambiamo ogni tanto un'occhiata d'intesa e, senza parlare, tanto ci si capisce, ci alziamo per andare fuori a fumare. Ci appartiamo in un angolo attrezzato e siamo sùbito circondati da viziosi con il loro metadone penzoloni fra le labbra. Vorrei sondare la sua aria eternamente triste, ma la folla dei fumatori maledetti loro e il rumore che viene dalla sala impediscono la conversazione.
Al ritorno, colpo di scena: ragazze, ragazzi e bambine, tutti vestiti da aborigeni, ci intrattengono con danze quasi tradizionali. C'è una scuola di tradizioni popolari e loro ne sono gli allievi. Gli abiti sono quelli che ben conosco dai Navajos di Tex Willer (in effetti, i paleo-siberiani sono progenitori degli amerindi) e le coreografie sono in parte sciamaniche (un ballerino morde un'amanita muscaria e ha visioni di fanciulle che gli danzano intorno, eccetera) e in parte raccontano deliziose storielle d'amore e di disavventure di pesca.
Poi attacca il cantante, la solita voce profonda e melodiosa dei russi, e si balla. Lena si accosta a Paola e le sussurra nell'orecchio il permesso di ballare con me. La merce di scambio è accordata, naturalmente. Ma davvero? E come farò con la mia gamba più corta? Mi agito cercando di tenere il ritmo indiavolato e invento anche qualche figura coreografica. Grazie Lena, sei stata deliziosa. Ora mi ci vuole però un'altra vodka. Irina mi fa un provvido cenno prima che Lena o qualsiasi altra si ripresenti, e via di nuovo a fumare. Questa volta andiamo fuori, ma fuori è un'altra folla di fumatori. Immagino che Irina volesse dirmi a sua volta qualcosa, ma il crocchio di gente ancora lo impedisce, e in più sembrano tutti molto incuriositi da me e Irina mi fa da interprete. Al nostro ritorno, apprendo che Paola è stata invitata a ballare dal Norvegese, e che se l'è cavata benissimo, anche con applausi. Evento raro, peccato non essere stato presente per una foto...