venerdì, dicembre 16, 2016

Per amore di Iokanaan
Bujeu-Brian d’Ařaxe

Cipressi, acacie, cedri, mandorli e ginestre per la nuova ninfa, tutt’intorno. E viti e olivi, palme e il fico immortale. Più giù, balsamo, issopo e cinnamomo odoroso e, a far da raccordo con il cielo, la liana vitalba che sa di biancospino. E funghi turgidi dov’è più umido, piccoli seni pronti, capezzoli eretti sotto le foglie cadute. Era bello sentirsi quel maschio addosso squassarle le visceri e il seno, come sempre, ma questa volta c’era un pensiero, un segreto, una decisione. L’inganno meditato. Adesso sì, pensò, ora, adesso, una figlia mia, solo mia, rubando all’ignaro il seme che innesca - a nient’altro serve un uomo. Nemmeno ho bisogno del suo pane perché so guadagnarlo da me, e anche di più del pane - lo dimostrerò. Fonderò la mia dinastia. Dinastia di lupe, matriarche, com’è il fondamento vero di Israele. Il bosco udì a lungo gli ansimi della coppia finché Giuditta aderì saldamente alla parete generativa, poi tutto tacque cedendo al consueto frinire e a tutti i fruscii, frulli, ronzii, cigolii, lo stormire incessante delle fronde, la pigna che cade chissà dove e l’acqua casta che gorgoglia lontano.

Non parlare, non chiedere, taci. Questo buio antico, questo dolore indicibile vogliono chiusura e silenzio. Non c’è racconto, indiscrezione, non sospetto, né ora né mai. Nemmeno il fatto: al più, pensieri, emozioni, nuvole di sensazioni come turbini di vento sulle colline aride e assolate; al più, brusii di preghiera riservata, mulinelli d’aria elettrica che si scarica fuori, oltre i monti violetti che chiudono lo sguardo. Non parole. Non azioni. Solo chiusura e solo silenzio: nemmeno domande senza risposta. Come domandare se non puoi immaginare? Il profondo vive celato in labbra chiuse, che non affermano né negano perché a serrar le labbra i fatti svaniscono, nemmeno sussistono né mai sono avvenuti. Perché è la parola che crea la cosa. Muta Giuditta taceva e non raccontava e sul silenzio e sul segreto aveva costruito la sua vita. Non l‘oltraggio e nemmeno la sua mancanza. Se qualcosa era accaduto, non c’era né mai era stato perché nessuno doveva sapere. Reticenza, non menzogna. Il tempo le scivolava oleoso intorno e senza attrito sempre uguale a se stesso dal domani allo ieri e poi ancora perché il presente, l’attimo, quello eterno, dura da sempre e ogni istante è quell’istante, quell’istante che crea il mondo, inamovibile come una colpa, uno stupro, un nulla, un’assenza, una cosa o una parola, inamovibili come i massi infuocati, abbruciati dal sole, della muraglia antica che rinserra la città. Saldi nella memoria come fosse ieri. Non ci fu un prima; non ci fu un dopo: solo il tempo rimase, silente musica infinita, eterno e identico a se stesso, immobile. Perciò non domandare. Rispetta il silenzio. Non saprai mai. Chiusa la città; chiusa Giuditta; chiuso il segreto. Ermetico, come il luto degli alchimisti.

Riposa la città come una femmina addormentata tra le coltri morbide che sanno di pelle liscia e profumata, distesa sul cocuzzolo che chiude la strada per Samaria, alta sulle fertili piane di Esdrelon e Dotain fino a Jezrel e Megiddo al lontano orizzonte. Si destano Giuditta e la città prima della prima alba mendace, rinserrate in se stesse, avvoltolate calde di sonno come una serpe, al brusco risveglio della pianura invasa, fitta di clamore di soldati e lance dritte al cielo, innumerevoli come le spighe d’estate. Assedio della donna e della città. Uomini in armi giù nella valle premono addosso bestiali, umidi di desiderio sotto le mura, al clangore delle spade sugli scudi a invocare, pretendere resa, abbandono e rassegnazione, il diritto alla violenza, allo stupro vittorioso e sognano essi le mura crollate, la breccia aperta, oscena come cosce spalancate per la quale ficcarsi come una marea di topi affamati al suono delle tube trionfanti, i membri eretti pronti ad azzannare, straziare. Straziare le loro carni molli e innocenti. E poi andar via, oltre, appesantiti dal bottino e alleggeriti della foia soddisfatta, verso Samaria ubertosa, ricca di mille frutti e d’olio e di vino e, dietro si sé, solo rovine e carogne al sole, a ricominciare. Hanno predisposto il ricatto mortale: chiuso le sorgenti, deviato i corsi d’acqua sui quali sorge la città, ché inaridisca la madre liquida che scorre e nutre, ché sia presa per sete, costretta, avvinta dalle catene che segnano la pelle arsa sulla carne rinsecchita sotto il sole implacabile.
La sete irrita e non appaga, nutrisce e non estingue. Il ferro almen sollecito ne uccida, e non la sete con sì lungo morir.
Sognano i soldati quella terrazza, la sua, la più alta, visibile da lontano come un emblema osceno e arrogante, che scorgono fluttuare di tende bianche nell’azzurro del cielo come spuma leggera sul mare lontano, erte, libere e provocanti sulla casa più alta dove riposa la femmina agognata, la vedova casta, la vergine indicibile, e la terrazza sognano e il giardino pensile rigoglioso ricco d’ombra e di quiete, che spiano da lontano dalla pianura infuocata, come un invito a soddisfar  la sete. Li vede, li sente. Se li sente addosso. Sopra i nitriti e i gridi marziali e le cadenze delle centurie serrate in corsa e la polvere che s’alza nel cielo, odono le schiere i canti sottili che promanano da lassù come un richiamo di sirena nuda distesa sotto il mezzodì, e odono l’invito d’amore che vibra la cetra al vento casto del mattino e han nel palato gli effluvi profumati che accendono la notte di mille fiammelle il desiderio e cola la saliva ai lati delle bocche affamate e delle zanne dei denti. Loro, Giuditta e la città. La dea assediata e la città del rifugio. Betulia, la città che non esiste.

Mi vedono bella. Lo capisco dagli occhi che mi spogliano oltre il velo - me, la giovane vedova ricca - dagli sguardi che bruciano e scrutano l’invisibile sotto il cilicio tessuto di ispida capra che mi preserva e mi nasconde e rivela come il novilunio la notte e, come le ali dei Serafini, il volto assassino e i piedi impudichi. Non abito questo corpo di desideri idolatri, che indosso oltraggiosa e nascondo pietosa. Non sono qui. Bella come un altare sacro e, come un altare, pura,
giardino chiuso, fontana sigillata,
eppure semino mio malgrado perle di desiderio. Quelle perle che non avranno mai, come non avranno la mia ricchezza. Io sono la mia ricchezza. Cosa c’è negli occhi, uomini, o nei sensi perennemente infoiati che mi obbliga a celarmi? Nient’altro che un oggetto per voi, passivo e inerte, pura forma bramata, oro e gioielli, ma io, io sono forma pura, e mistero, la sposa di Dio, che si sottrae come il suo sposo tra le nubi del Sinai il giorno che ci diede le Sue leggi. E tu Manasse, “motivo di oblio”, mio sposo, sei nulla anche nel nome; il tuo destino colpevole mi travolse innocente. Che hai fatto contro Dio, Manasse, che ti trattò come un reo che non merita pietà e travolse me la Sua punizione? Non ti dimentico né dimentico l’oltraggio anche se sei l’oblio ma ti confondo e confronto - in te tutte le colpe dei Manasse obliati, perduti, nome di disgrazia: il figlio di Asenet l’egiziana che non seppe mantenere il suo diritto a essere il primo dei figli di Giuseppe, il re di Giuda che sacrificò ad altri invece che a Chi doveva e ne fu distrutto e sei coloro che cercarono le loro donne al di fuori del popolo di Israele e ne furono puniti. E sei anche la decima tribù (tu, che non generasti), la tribù perduta... Sei tutti costoro e chi preferì morire un meriggio assolato a mietere l’orzo grondando sudore come uno schiavo invece di secernere il nettare d’onore per il sacrificio.
Ho aperto allora al mio diletto, ma il mio diletto già se n'era andato, era scomparso... Dov’è andato il tuo diletto? Il mio diletto era sceso nel suo giardino... Io venni meno, per la sua scomparsa. L'ho cercato, ma non l'ho trovato, l'ho chiamato, ma non m'ha risposto.
Sei colui che ha perduto e che si è perduto, Manasse, fuggito come una lepre nei campi inseguita dai cani, che muore e scompare perché non c’è, non c’è mai stato, come la mia città! Sei morto e, come ai colpevoli, non ti si è svelata l’essenza divina che si cela nelle pieghe delle vesti che velano l’indicibile per onorare l’altare cui eri dedicato, arroventare lentamente il forno dove cuocere il pane, al calor bianco della generazione, istante dopo istante. Manasse, mio sposo, povera cosa. Mi hai fatto vedova, non altro. E ricca, che suona scandalo ai pezzenti della città perché sono donna. Sono colpevole, madre, perché non ho generato. Non le femmine, lupe matriarche, come volevi, per la tua dinastia. Non ho generato affatto. A che una donna senza prole? Un Dio geloso non lo ha voluto. Se mi volevi, Dio, perché darmi a Manasse? A che serve, a chi, ora, la mia bellezza? Sono un’opera incompleta. Un disegno nella polvere, cancellato dai calzari del prossimo viandante. L’ottavo giorno della creazione, il giorno della distruzione. A che la mia ricchezza? A che il mio potere, sugli uomini e sulle cose? Sabbia che turbina nel deserto. Ancora e sempre, come una condanna,
sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l'amato del mio cuore; l'ho cercato, ma non l'ho trovato.
Sono io lo scandalo, l’onta di mia madre delusa e sprezzante: e mi nascondo nel silenzio.
Mi desiderava come un animale e io avevo sedici anni, avevo vent’anni. Lo evitavo, andavo nei boschi. Fuggivo a cavallo e non gli permisi mai di raggiungermi, perché non mi fidavo. I boschi mi davano una grande angoscia, ma io avevo paura di lui. Ho sempre trovato il mio piacere nell’angoscia: e fino alla sua morte, mi sono ogni giorno di più ammalata. Avevo la certezza di essere disperatamente viziosa, e non ero che un bambina, perché il desiderio ardeva in me, mostruosamente. Sensualità senza disordine e nondimeno senza misura. È la voluttà tutta la mia vita. Non ho mai scelto: so che, priva di voluttà, io non potrei esistere, che, privata di quell’attesa, la mia vita non avrebbe più ragion d’essere. Credo di aver amato solo nei boschi. Non amavo i boschi, non amavo nulla. Non amavo me stessa, ma c’era in me una smisurata forza d’amore. Credo di amare solo l’amore; ma, nell’amore, l’angoscia di amare non l’ho provata che nei boschi o il giorno in cui la morte...
E nessuno saprà, mai! Ma sono viva e, a modo mio, matriarca come un’ape regina. La mia ricchezza me lo concede - e la mia bellezza, la mia giovinezza. Mia figlia è la città, tutta intera, il mio alveare. Mostrerò al mondo, alla città, la mia città, alle mie figlie, quel che vale e a che serve questa donna sola, triste, vedova, monca, colpevole e spezzata e senza prole; non per voi, femmine felici come vacche nelle stalle calde di paglia ed escrementi ma per voi altre, voi come me, sole, tristi, vedove e vergini libere, indomite e assassine! Darò in ostaggio e pagamento il mio corpo per una volta fonte di delizia e poi ti ucciderò, con voluttà, Manasse!

  1. Tutto nacque almeno da Abramo e proseguì con Isacco e poi Giacobbe, “il soppiantatore” perché tentò invano di impedire al gemello di nascere per primo, trattenendolo per il tallone e poi si finse chi non era per un credito di lenticchie, come sappiamo.
  2. E Giacobbe fu chiamato Israele perché “uomo di Rachele”, matriarca ed eponima.
  3. E la matriarca eponima, che non poteva figliare, partorì Giuseppe il sognatore e Beniamino; Bila, serva di Rachele, Dan e Neftali; Zilpa, serva di Lia, Gad e Aser ma Lia, prima moglie per l’inganno di Labano e sorella della matriarca, ne generò sette: Ruben che si eccitò per Bila, Simeone e Levi che fecero la strage senza permesso, Giuda, Issacar, Zabulon che fanno dodici e una figlia, Dina.
  4. E Dina piacque troppo a Sichem il cananeo che la violentò.
  5. E Sichem fu per questo massacrato senza permesso con tutti i suoi da Levi e Simeone, che finsero di acconsentire a nozze riparatrici purché i Cananei adottassero la circoncisione ma li assalirono a tradimento quando questi non potevano difendersi perché debilitati dall’operazione.
  6. E la tribù scomparve e donne e animali e idoli cananei furono razziati e arricchirono il popolo di Giacobbe.
  7. E per questo Giacobbe diseredò Levi e Simeone che fecero la strage senza permesso, lasciandoli senza il becco di uno iugero né di un mezzo piede di tavola di terra di Israele.
  8. E Dina partorì Asenet, “dimora di Neth” vergine dea progenitrice, che Simeone, che aveva sposato Dina, non sopportava perché figliastra e nipote nata dallo stupro di un cananeo, per cui la espose nel bosco affinché morisse (oppure in una cesta sul fiume come Mosè).
  9. E Asenet fu salvata dall’angelo Michele e portata in Egitto dove fu adottata da Putifarre sacerdote a Eliopoli che era senza figli e padrone di Giuseppe il sognatore, per averlo acquistato dai fratelli.
  10. E il faraone diede Asenet in sposa a Giuseppe per ricompensa dopo le calunnie della padrona e dei sette anni di carestia.
  11. E Asenet, vergine che spregiava gli uomini, fu toccata dall’angelo senza nome con un favo d’api e si riconobbe ebrea e non spregiò lo zio Giuseppe e partorì Efraim e Manasse (quello dell’oblio nel mome).
  12. E il figlio del faraone, innamorato di Asenet, tentò di rapirla, persuadendo Dan e Gad a uccidere il fratellastro Giuseppe ma il fratello Beniamino sventò il tentativo e il figlio del faraone venne ucciso.
Giuditta discendeva da Simeone.

Chi è costei che sorge come l'aurora, bella come la luna, fulgida come il sole, terribile come schiere a vessilli spiegati?
Miete la morte con la sua falce il vento con brividi che risuonano nel profondo. Il silenzio - il nulla della parola - la circonda, le si avvolge intorno la bellezza come Nahash l’edenico, il tentatore in spire di fumo. Occhi muti di stupore osservano collane, bracciali, cavigliere, occhi bistrati come luce che brilla in fondo al nero del caos, e piedi osceni dipinti nei sandali nudi, unta d’olio odoroso e resine rare ancheggiare in mulinelli di vento come la musica acre del nulla che spira dal deserto, accordi di desiderio, quel profumo indicibile che infuoca la gola e asfissia il respiro, che attira come il vuoto, Giuditta, come la morte che affascina e tira giù capofitto o s’apre ella come un gorgo inaspettato nelle acque tranquille e la serpe dello sguardo ti trascina nell’abisso delle sue labbra infuocate e ti vedi là, in fondo, accasciato sul fondo, e quel nulla, quell’arcano, ti tenta come una rivelazione disperata, ti spinge irresistibile, inevitabile divina morte verso di lei:
ondeggiando a destra e sinistra la sposa si avvicina, in gioielli sacri e vestimenti per festa.
È tua la festa, Giuditta, la tua festa, la festa di te. Il cuore stesso del mistero, inconoscibile, avvenente e inavvicinabile a passo di danza, traente, intangibile Papessa,
cavalcava un cherubino e volava, si librava sulle ali del vento. Si avvolgeva di tenebre come di velo, acque oscure e dense nubi la coprivano. Davanti al suo fulgore si dissipavano le nubi con grandine e carboni ardenti.
Così  
           ella si va, sentendosi laudare...

Ed era già un fiore di diciotto, tanto a lungo si era preservata e alta, come Sara e bella, come Rebecca e dolce, come Rachele e questa era Asenet. Non sembrava egiziana; qualche malevolo la pensava ebrea. Ed eccitava gli uomini e per questo si celava nella torre con sette vergini di pari età e giovinezza, il suo popolo, le sue sorelle, belle come le sette stelle del cielo e diede a ciascuna una stanza e ne aveva tre per sé: la prima di pietre rosse al pavimento e tutti i simulacri degli dèi alle pareti in pietre e metalli preziosi ai quali ogni giorno offriva sacrifici ed era tutto d’oro il soffitto, la seconda di ornamenti e stoffe preziose e la terza di tutte le meraviglie del mondo. E c’erano tre finestre ad est, a sud e nord e il letto d’oro sotto quella orientale con coltri di porpora intessute d’oro e d’azzurro, sì che il sole la svegliasse con la luce che innonda dopo l’alba sincera. E c’era intorno un giardino di piante di frutti meravigliosi e una fontana d’acqua sorgiva e una cisterna ed era chiuso il tutto da un alto muro di pietre quadre con quattro porte ferrate, guardata ciascuna da diciotto giovani armati a preservarne la purezza perché nessuna di loro aveva conosciuto uomo né bambino maschio e così doveva continuare. E venne Giuseppe, governatore di tutto l’Egitto, a Eliopoli da Putifarre sacerdote di On ma Asenet non volle conoscerlo perché non era del suo popolo e si rinchiuse nella torre ma di là lo scorse e si pentì perché vide che la luce di Dio era sopra di lui. E Giuseppe sedeva discosto da Putifarre e dai suoi per non peccare di mescolanza contro il suo Dio e vide Asenet che lo guardava dalla finestra della torre tra il fluttuare di bianchi tendaggi e chiese a Putifarre di allontanare quella straniera dal suo sguardo perché ricordava le parole di Giacobbe:
«Guardati, figlio, dalle donne straniere e non avere commercio con loro perché sono rovina e distruzione».
Sorrise Putifarre e rispose:
«Mio Signore, la donna che hai visto lassù non è straniera ma mia figlia, una vergine che detesta gli uomini e che nessun uomo mai ha visto prima, tranne te adesso ma se lo vuoi verrà e ti parlerà perché ella è tua sorella».
Si rallegrò Giuseppe in cuor suo perché aveva udito che ella spregiava gli uomini poiché soffriva egli stesso di essere perennemente concupito a causa della sua bellezza e prestanza e disse:
«Allora falla venire perché ella è mia sorella e io sarò suo fratello».
Ed ella venne e così Putifarre la introdusse:
«Accogli o figlia il tuo fratello perché anch’egli è vergine come te e detesta le donne straniere come tu gli uomini che non sono del tuo popolo. Avvicinati e bacia tuo fratello».
Le pose Giuseppe una mano sul seno per tenerla discosta e così commentò:
«Non è lecito a chi venera Dio e a chi con le sue labbra Lo benedice e mangia e beve i Suoi cibi benedetti, baciare una donna che con le sue labbra benedice idoli morti e muti, mangia dalla loro tavola il pane dell’angoscia, liba bevande dalla tazza del tradimento e viene unta con l'unzione della distruzione, così come non è lecito a una donna che venera Dio baciare un uomo che non è del suo popolo perché ciò è abominio agli occhi di Dio».
E poiché Asenet soffriva e gridava forte e i suoi occhi erano colmi di lacrime, Giuseppe invocò su di lei la benedizione di Dio tenendole la mano sul capo e Asenet ne fu felice e corse nella sua stanza gettandosi sul letto e lo spirito di Dio era sopra lei e a lungo pianse di gioia e, insieme, si doleva di aver offeso e respinto e misconosciuto quel fratello così colmo di luce divina, e aver così offeso Dio offendendone il figlio, per cui si chiuse dall’interno, respinse le ancelle in pena per lei, gettò abiti e monili e idoli dorati dalla finestra, si cosparse di cenere e vestì il cilicio tessuto di ispida capra e fu così per sette giorni finché la cenere sul pavimento divenne fanghiglia perché intrisa delle sue lacrime. E l’ottavo giorno la stella del mattino sorse alta nel cielo e Asenet fu ricolma della sua luce e seppe così che Dio l’aveva perdonata. E si gettò a terra riconoscente quando udì una voce che la chiamava e vide un uomo meraviglioso che pareva disceso dal cielo che così le parlò con divina bocca di miele:
«Sono principe della casa del Signore e capitano del suo esercito. Thalità kumi - disse in aramaico - risorgi, fanciulla. E ascoltami».
E Asenet vide che egli era in tutto simile a Giuseppe, vestito di candida stola e portava in mano uno scettro e in capo una corona. Il suo viso era luminoso, gli occhi raggi di sole e i capelli fiamme di fuoco.
«Dio ha visto il tuo tormento e ti riconosce come Sua figlia e accoglie presso di Sé. Gioisci e rinasci a nuova vita. Spogliati dunque della tunica nera e del cilicio tessuto di ispida capra, lavati via la cenere e avvinci i fianchi e il seno con la doppia cintura della verginità. E del pari nuda e svelata sia la testa perché sei una vergine nel corpo ma il tuo capo è quello di un uomo. Dio ti ha dato sposa a Giuseppe e ha dato lui a te come sposo. E non sarà più Asenet il tuo nome, ma ti chiamerai “Città del rifugio” perché sotto le tue ali molte nazioni troveranno riparo. Andrò da Giuseppe e oggi stesso egli verrà da te, perciò per lui ti vestirai e ornerai come una sposa».
Fece Asenet tutto come le fu chiesto e colma di gioia chiese all’angelo come si chiamasse ed egli rispose che il suo nome era scritto dal dito di Dio nel libro del più eccelso dei re ma nessuna creatura poteva leggerlo né udirlo. Allora Asenet tirò l’angelo per la veste:
«Ascolta me, adesso, angelo innominato. Siedi su questo letto al quale nessun uomo si è accostato e appronterò per te una tavola con lesto desinare e del buon vino per il tuo ristoro e poi andrai dove dovrai».
«Allora fa presto».
E mangiarono e bevvero insieme sul letto verginale e l’angelo chiese:
«Portami un favo di miele».
«Permettimi di mandare un servo a prenderne uno in campagna».
«Va’ invece a prenderlo nella tua stanza».
E con grande sorpresa lo trovò dove l’angelo aveva detto che c’era e il favo emanava profumo come di mirra ed era bianco come la neve. E le pose l’angelo la mano sul capo e la benedisse. Poi spezzò il favo e ne mangiò un frammento e ne pose un altro fra le rosse labbra e i bianchi denti di Asenet, ed era quel frammento di favo il pane della vita, che Asenet succhiò a lungo sentendone il dolce sapore invaderla come un lento fuoco. Poi egli allungò la mano e pose il dito sul bordo del resto del favo che rivolse a est e il percorso del dito lasciò una traccia di sangue sul favo e stese la mano una seconda volta e pose il dito sul bordo del resto del favo che rivolse a nord e il percorso che il dito lasciò era una traccia di sangue. E mentre Asenet si stupiva ritta in piedi alla sua sinistra, uno sciame d’api uscì dal favo, alcune bianche come la neve e altre rosse come il sangue e si posarono su di lei e l’avvolsero tutta che Asenet ne era interamente vestita e ronzava del loro ronzare e le api deposero miele vergine sul suo palmo che Asenet leccò guizzando la piccola lingua e a lungo succhiò l'angelo le dolci dita della vergine e le ali delle api erano iridescenti, viola e blu e oro e avevano diademi d'oro sul capo e pungiglioni appuntiti e tutte le api volavano in cerchio intorno a lei, sfarfallando dai piedi fino alla testa e molte api, grandi come regine, si posarono sulle sue labbra e carezzavano con le minuscole ali vibranti l’avorio dei denti. E comandò l’angelo alle api di tornare al loro posto e queste lasciarono Asenet vestita di miele e caddero a terra una per una, morte. E l’angelo ancora comandò alle api di rialzarsi e tornare al loro posto e queste rivissero e si rialzarono e volarono fuori dalla finestra d’oriente.
«Hai osservato tutto questo?» chiese l’angelo.
«Sì, mio Signore».
«Così sarà delle mie parole».
Allora l'angelo stese la mano per tre volte e toccò il miele e il fuoco uscì e consumò il miele senza bruciare e il profumo che emanava dal miele e dal fuoco era molto dolce. E toccò il favo, e il favo prese fuoco e trasse una fragranza rinfrescante che riempiva la stanza. E Asenet chiese all’angelo di benedire anche le sue ancelle e Asenet le chiamò e l’angelo le benedisse. E chiese l’angelo di toglier via la tavola dove avevano mangiato e quando Asenet si voltò per farlo, l’angelo scomparve ma guardando dalla finestra d’oriente parve ad Asenet di vedere un carro di fuoco trainato da quattro cavalli che ascendeva al cielo. Ed era Asenet colma della luce del Signore. E si vestì e ornò, la dea delle api, come una sposa.

A l’apparir de la beltà novella nasce un bisbiglio e ‘l guardo ognun v’intende, sí come là dove cometa o stella, non piú vista di giorno, in ciel risplende; e traggon tutti per veder chi sia sí bella peregrina, e chi l’invia. Mostra il bel petto le sue nevi ignude, onde il foco d’Amor si nutre e desta. Parte appar de le mamme acerbe e crude, parte altrui ne ricopre invida vesta: invida, ma s’a gli occhi il varco chiude, l’amoroso pensier già non arresta, ché non ben pago di bellezza esterna ne gli occulti secreti anco s’interna...
Come Aseneth risorta dalla cenere, il suo corpo reca in sé il miele di tutte le api, di tutte le api ninfa regina. Il miele che non corrompe perché non è corrotto. Fuchi ronzanti, addio. Basta a se stessa Giuditta e alla sua giustizia. Già gli avamposti l’hanno avvistata e guizzano i guerrieri come pesci argentini all’incontro con l’esca appena gettata. Venite, pesciolini, e ammutolite di meraviglia perché l’amo è ben celato. Non per voi ma per Oloferne si è svelata, la splendente. Non simula: dissimula; come sempre, dice e non dice perché il non detto è più forte e ancor più accende. Se c’è del vero nella finzione, è la finzione a esser vera e porta l’inganno la verità con sé. Nulla va svelato, o uomini, perché sono il mistero e l’ignoranza la salvaguardia dei vostri occhi impudichi che la potenza della verità incendia e incenerisce. E tu vedrai e saprai, Oloferne, e la tua conoscenza ti perderà, perché ella
non è una donna, ma un mondo. Le sue vesti cadranno, e tu scoprirai sulla sua persona una successione infinita di inesauribili misteri.
Misteri che lo svelamento rivela e vela di nuove e più insidiose vesti, così com’è nascosto ogni dio nella gran lupa, puttana sacra come una dea. Vedrai il suo dio, Oloferne, senza veli e ne sarai fulminato perché ogni dio è tutti gli dèi, e uno solo. E tu, Oloferne, illuso di possesso, sarai posseduto come possiedono le ninfe che dànno la follia, le Lilith e le lune nere, le Astarti dei Cananei, indiato e morto e non sarai che un Sichem castrato o un Simeone da giustiziare e tu, Manasse, povero amore, nulla di più un Sichem o di un Oloferne mancati o non adatti o non sufficienti o solo distratti e svagati o ebbri del vino o di un colpo di sole e per questo comunque colpevoli.

Uno zio bandisce e ferisce, uno zio accoglie e risana. Una discendente chiude il cerchio. Che importa se gli attori sono differenti e, a uno a uno, incolpevoli? L’equilibrio va ripristinato, delitto per delitto e sarà sua la dolce mano con la bilancia e con la spada. Perché la lotta avviene sempre e solo in famiglia, secolo dopo secolo.   
Ah! Ho baciato la tua bocca, Iokanaan, ho baciato la tua bocca. C’era un acre sapore sulle tue labbra. Era forse il sapore del sangue? Ma forse era il sapore dell’amore. Dicono che l’amore abbia un acre sapore... Ma cosa importa? Cosa importa? Io ho baciato la tua bocca, Iokanaan, ho baciato la tua bocca!

E così diedero a Giuditta la tenda di Oloferne, tutte le argenterie, i divani, i vasi e tutti gli arredi: tutto ella prese in consegna e cominciò a caricarlo sulla mula, poi aggiogò i carri e vi accumulò sopra la roba e portò a casa. E si radunarono tutte le donne d'Israele per vederla e la colmavano di elogi e composero tra loro una danza in suo onore. E prese ella in mano dei tirsi e li distribuì alle donne che erano con lei e insieme con esse si incoronò di fronde di ulivo e precedette tutto il popolo, guidando la danza di tutte le donne, mentre ogni Israelita seguiva in armi portando corone e risuonavano inni sulle loro labbra
e il coro dei satiri irsuti echeggiava con mistica voce. Tutta la terra rideva, mugghiavano gli scogli, le Naiadi mandavano grida, sul fiume dai flutti silenti e le ninfe volteggiavano in un cerchio e intonavano le note concordi di un ritmo siculo come quello che le melodiose sirene spargevano con bocca di miele...

Scorsa gran parte era ormai della notte. Il campo intorno nel sonno universal taceva oppresso. Vinto Oloferne istesso dal vino in cui s'immerse oltre il costume, steso dormìa sulle funeste piume. Sorgo: e tàcita allor colà m'appresso dove prono ei giacea. Sciolgo da' sostegni del letto l'appeso acciar: lo snudo; il crin gli stringo colla sinistra man: l'altra sollevo quanto il braccio si stende, i voti a Dio rinnovo in sì gran passo e sull'empia cervice il colpo abbasso!

Roma, 28 ottobre - 16 dicembre 2016

[Corsivi da Dante Alighieri, Georges Bataille, Cantico dei cantici, Gustave Flaubert, Libro dei salmi, Pietro Metastasio, Nonno di Panopoli, Torquato Tasso, Oscar Wilde]



sabato, ottobre 08, 2016

Cara, ti scrivo


Cara, ti scrivo.
Già l’ho fatto, spesso e a lungo, fiumi e valanghe in prosa e in verso, ottenendo silenzio. Non posso evitarlo. Non ti piace che scriva perché non puoi ribattere ma solo subire fino alla fine dello scritto - del discorso che non c’è perché di questo discorso non c’è il tempo né lo spazio per farlo (sempre di corsa, sempre oberata di appuntamenti, sempre in fuga - da me?) né, soprattutto, perché non c’è, almeno da parte mia, quella sensazione di fida complicità calma e distesa che consente di scambiarsi pensieri, pensieri segreti e parole pubbliche con tutto il tempo che serve, e serve un tempo lungo, fatto di vicinanza, frequentazione costante e assiduità l’uno con l’altra. Conoscersi a memoria. Non c’è perché ti sottrai a questa frequentazione.
Immagino lo sbuffo vedendo l’ennesimo scritto che ciò non ostante ti impegnerai a leggere, sapendo che le accuse saranno maggiori dei perdoni, questi maggiori dei grazie, che sono maggiori delle estasi. Ah, quest’estasi che però c’è sempre perché basta la tua immagine, anche senza corpo, immagine del pensiero, che ci vive dentro e intorno ed esalta ed eccita anche, come se fossi qui...
Quindi scrivo per non poter parlare, perché non posso parlare, non possiamo parlare, perché ci sono parole che non si possono pronunciare a tutta voce a comando e in dieci minuti, ma sussurrare quando i corpi da tempo sono distesi, abbracciati, e si confondono i respiri e si mescolano gli odori. Lentezza. Tempi lunghi. Queste parole non vogliono lo specchio dell’altro posto di fronte ma il contatto dei fianchi, la penombra, il silenzio - e calma e lusso e voluttà... Queste parole non saranno mai dette perché mancherà (sempre?) la voluttà dell’amicizia, della vicinanza, dell’abitudine alla frequentazione di ore e di giorni, del contatto dei fianchi... perché due sono insieme non quando sono di fronte e vanno in direzioni opposte (di fatto, si scontrano e il cammino dell’uno ostacola quello dell’altro), ma quando sono affiancati e procedono nella medesima direzione. Affiancati, non ci si guarda ma ci si vede, ci si sente, percepisce in altro modo. Queste parole sono, allora, dette di fianco, non di fronte, come se tu mi fossi accanto. Sono parole dette alla compagna, non all’avventura, non all’amante né alla fidanzata - sono dette alla sposa; a quella che non vuoi essere. Non posso far altro, dunque, che scrivere. E tu leggere cercando di immaginare il suono delle parole.
Scrivo perché ho bisogno di parlare con te, di averti come ascoltatrice seppur differita e, scrivendo, mi sembra di averti vicina, qui, accanto (ma va bene anche di fonte) che mi ascolti e fai tesoro delle mie parole. Scrivo perché mi legga, perché non voglio scrivere né parlare con nessuno se non con te. Non è bello avere orizzonti così limitati, ma il mio lo è e coincide con te, anche se io non sono il tuo orizzonte (se lo sono, fai del tuo meglio per non rivelarmelo). Come con Godot, due soli personaggi in scena. O Krapp, o anche Winnie, un personaggio solo. La scrittura mi avvicina; è il solo modo che ho per averti con me. Tutto nella mia testa, nel mio corpo. Il tuo non c’è; nemmeno la testa?
Scrivo di cose che sono dette “dalla parte mia”, che dicono di me, ennesimamente di me, sempre e solo di me, come il flusso di parole (inutili?) con le quali ti ho subissato finora, sostanzialmente per dire e lamentarmi della mia situazione, perché tu non dici e il più delle volte parlo a me stesso e sembra che queste parole cadano nel vuoto. Il più delle volte, in realtà, è come se tu parlassi, perché ritengo, presumo, insuperbisco di sentire, capire, quel che non dici. Non serve molto. Basta un clic, un gesto, uno stringere il pugno, un premere i labbri, un occhio che si sgrana, una testa poggiata un po’ di lato, un volgere lo sguardo, un mezzo sorriso, un occhio chiaro e un occhio scuro, un toccarsi i capelli, un dito veloce sulle ciglia, un soffio di respiro e io sono tutto dentro le tue parole che non dici, dentro le cause che ti impediscono di parlare, le paure da non dire, e i ricordi, le situazioni, le aspettative segrete per tutti (anche per me?)... Io ci sono, sono qui in mezzo, circondato dal tuo silenzio (assordante), che dice di più non dicendo, ma - ma - ma non dice, non porta avanti, non impegna, non progetta né, tenace, quel progetto comunque rivela perché gli spiriti che ci aleggiano intorno e succhiano la vita non abbiano ad arricchirsi di quel pensiero, quelle parole, e tutto ci rivolgano contro. E le ottengo da me queste risposte, queste parole, sono tue ma me le dico da me per sentirle dire, una buona volta da qualcuno, e ascoltarle con la mia stessa voce.  Ma non serve dire, se l’altro capisce.
Così, la lingua devien tremando muta...; ma non è chi la mira colui che non sta parlando ma è ella stessa che non sa, vuole, osa dire nulla di sé, proprio perché venuta di cielo in terra a miracol mostrare - e d’umiltà vestuta, eccetera, perché non c’è nulla da dire perché, dicendo, le possibilità diventano realtà, scadono a matematica, stocastica, ingegneria, diventano oggetti, sassi sul sentiero che saranno sempre un ostacolo, che non puoi calciar via per quanti ce ne sono. E i sassi vanno respinti, confutati, a rischio di cadere in contraddizione. E se il sasso non è quello che sembra? Meglio non fidarsi. Se non dici, la nebbia li avvolge tutti e tu con essi e tutto si confonde con il caos delle origini e svanisce come nulla fosse mai nato. E la realtà ritorna da dove proviene, ritorna a essere una possibilità e niente più, e in più infinita com’è ogni possibilità, non ridotta, concretizzata a un che di finito e limitato e sasso e ostacolo, nel quale non ci sentiamo rappresentati. Metafisica del silenzio. Troppo silenzio, come Madonna, che silenzio c’è stasera...
Be’, c’è sasso e sasso. Quelli puramente materiali li si scalcia con un volteggio. Chi non se ne va sono i sassi del pensiero. Contro quelli non ci sono risorse.
Non parli ma immagino e forse so che tu capisci, che la mia posizione ti è nota e credo - credo - che ti dispiaccia. Se non altro, perché ne ho parlato a bizzeffe, anche troppo. Tu stessa mi hai invitato a non scrivere, ma che fare se le cose dette non hanno mai risposta? La risposta è l’aggancio, il fulcro del pensiero: senza di esso il pensiero gira a vuoto, solo con se stesso, solo dentro se stesso. Solitudine. Come con i tarocchi: chi taglia il mazzo?
Che interpretazione dare? Un eccesso d’umiltà vestuta? O la coscienza che questo mio disagio di vivere non puoi né sai (se lo vuoi) lenire, risolvere? Così, mi faccio la domanda e mi dò anche la risposta, una masturbazione niente male. A ogni domanda, infinite risposte possibili, ma in definitiva sono solo due, quella del sì e quella del no, mentre a essere veramente infinite sono le spiegazioni, le ipotesi causali, quelle che spiegano il comportamento che è come un imbuto, una via stretta che si allarga, nel “passato” causale, a ventaglio fino a quantità innumerevoli. Una domanda, molte risposte, da valutare, pesare, discutere, ma sempre nel campo del possibile, senza indizi certi della realtà. Tutto sempre nella mente.
E così, nessuno sa il tuo progetto. Chissà se questo progetto mi riguarda? Ne dubito. Un tempo lo speravo perché ritenevo che fosse identico al mio e su questa identità avevo contato, su di essa avevo puntato alto, il più alto possibile. Ma tutti gli indizi finora raccolti in quasi sei anni di vita negano questa possibilità, che non diventerà mai probabilità e nemmeno realtà. Dunque sono solo e mi sono illuso di non esserlo? Di non esserlo più? Ecco la verità triste: non sono in grado di esistere senza di te mentre tu sei abituata, per tua scelta, a essere senza nessuno. Credevo che, incontrando me, avresti cambiato rotta. Non sono evidentemente così importante, per te e quindi per nessuno. Se non lo sono per te, non lo sono per nessuno. Ti piaccio, lo so, me lo hai detto. Ma non abbastanza da dividere tutto con me. Niente viene condiviso, come nella separazione dei beni: tu la tua vita, io la mia, incontrarsi ogni tanto quando garba a te e riesci a organizzarti (sempre più raramente) con grazia e con stile. Non sono io lo spasimo dei tuoi sensi o, se lo sono, questo non deve arrivare a stravolgere la tua vita. Ci sono cose più importanti che spasimare per me (l’elenco lo conosci) e, soprattutto, dimostrare questo spasimo. Spasimo segreto perché hai scelto una vita segreta - di fatto, la menzogna. Forse perché non ti violento, non ti obbligo con la forza, non ti perseguito né ti umilio. Sono, lo vedi e lo sai, al tuo servizio. Un amore servile - che vergogna! Forse vuoi solo uomini che ti facciano del male. Forse ti sentivi viva quando subivi - mai così viva. Forse ami (e temi) chi ti strattona: ti senti, allora, desiderata in modo sanguinoso, violento, quasi omicida. Questo ti dà valore. Sogni il sangue perché ne hai terrore. Forse solo chi ti insanguina entra nella tua vita. Chi ti aggredisce, chi ti perseguita. Così è stato, e di questi sei diventata amica... E ogni volta che ti accade di incontrare una tale persona, il brivido del pericolo, e il gioco dello sfuggirvi, questo è impagabile... Così, chi ti fa del male è, per te, forse un aiuto per rafforzarti nel continuare a disprezzarlo e restare quel fiore puro non macchiato di sangue che vorresti essere, quel sangue tanto desiderato. Non ti dò questo brivido. Io non ti ferisco perché non potrei mai farlo, né vorrei. Per questo conto così poco.
Tutti questi forse non fanno una sola verità. Sono arzigogoli di una mente incatenata che non trova risposte adeguate, di una mente stravolta dalla tua esistenza. Un avvocato o un notaio saprebbero darmi la soluzione, soluzione che sarebbe negativa: se non puoi contrattare alla pari, direbbero, rinuncia all’affare; non fare il passo più lungo della tua gamba e tutte le altre oscenità ragionevoli degli avvocati e dei notai. Se non puoi stare alla sua altezza, ritirati e rifatti una dignità (già gravemente compromessa) altrove. Lasciala perdere: non sa amare né vuole farlo se non in questo suo modo che per te è insostenibile. Di fatto, alla prova dei fatti, non ti ama. Ti accusa. Non ti aiuta. Ti lascia affondare. Aiutarti significherebbe impegnarsi alla pari, cosa che non sa né vuole fare. Spera che tu, almeno, visto che non le fai violenza, la tradisca sfacciatamente - poiché non lo fai, non vali nulla, se non come oggetto di accuse sognate, quando è ella stessa a essere, da sempre, nel torto della mancanza d’amore. Così fa il ricco, così fa il potente: umilia e domina. Forse a te piace, direbbero gli avvocati-notai,  essere umiliato e dominato... allora, per te non c’è speranza, e rinuncia sùbito ai tuoi sogni di una vita felice. Ma se non è così, fuggi lontano. Non sei presente, lo vedi da te stesso, in nessuno dei suoi progetti, nessuno. Se lo fossi, te lo direbbe e parte del vostro tempo sarebbe impegnato a progettare, sognare, organizzare... Solo la sua vita ha diritto a essere felice, perché se lo può permettere. Che bella felicità! Così, quando sarai fuggito (sanguinante ma vivo), ella potrà dire che non valevi nulla, che non avevi capito nulla e questa disgraziata parentesi della sua vita potrà trionfalmente e dolorosamente esser chiusa, e tutto tornare nell’ordine. Tornare a sognare il sangue senza farsi insanguinare.
Mi aspetta un’altra notte insonne.

Roma, 8-9 febbraio 2016

domenica, settembre 25, 2016

Vasilij Doboj

Vasilij Doboj
Bujeu-Brian d’Araxe


Erano appena suonati novanta rintocchi. Parenti, discendenti, amici e colleghi erano intorno per la festa che presiedevo sulla poltrona padronale. Tenevo in grembo la mia bambolina preferita dai boccoli d’oro. Il brusio saliva dalla sala fin verso le volte affrescate; una pretenziosità, come tutta la magione, voluta da mio padre, fissato con un Rococò del tutto estemporaneo e, secondo me, fuori luogo in quest’angolo del Brasile. Diceva che gli ricordava San Pietroburgo dove aveva speso la giovinezza. Sarà (San Pietroburgo è più bella); ma quel tempo e quei luoghi sono trascorsi per noi e non credo negli spasimi della nostalgia, come l’ansia (che sa di morte) di farsi circoscrivere in uno spazio che pretende di annullare o riavvolgere la Storia, non diversamente dai collezionisti... La Storia rientra ogni attimo dalla finestra e ogni attimo ci trascina fuori, nel mondo attuale. Così, anche se è bello il Rococò, è meglio che se ne stia nel suo tempo; quello nostro vuole altro ed è giusto che lo viviamo in sua simbiosi, bene o male che sia, perché siamo vivi adesso, non tre secoli fa.
    Ma quella sera la cosa era diversa e qualcosa bisognava concedere. Quasi tutta la compagnia era composta da esuli russi e gli indigeni presenti ne erano discendenti, incrociati, inevitabilmente, con materiale umano locale. Ne derivavano caratteri misti, molto belli, nei quali le basi vichinga e mongola s’intrecciavano con quelle europea e africana: una meraviglia genetica, non solo nel corpo ma anche nello spirito e nella cultura. Sono sempre stato favorevole al meticciato che innalza la qualità umana ed è coerente con la Storia degli ultimi cinquantamila anni, a dir poco.
E quella sera la cosa era  diversa in modo inevitabile. Erano inevitabili le balalaiche e i violini, inevitabili le montagne di asietra, beluga e sevruga, inevitabile lo champagne rigorosamente armeno, così come ettolitri di kvas e di vodka del Caucaso, insieme con quelle zuppe troppo acide e quei dolci troppo dolci che non ho mai sopportato, e così via con tutto il folclore da cartolina. Ma capisco che servisse a tener viva l’identità nazionale di chi si sentiva, dopo tanti anni, ancora straniero... Contenti loro... Glielo concedevo, ogni dieci anni.
    «Non ci avete mai raccontato, Eccellenza, della vostra giovinezza...», disse un giovane e solerte funzionario il cui merito assoluto consisteva in una moglie così avvenente che non potei esimermi dal farmi e strafarmi spesso e volentieri. In realtà, non c’era femmina, in quel consesso, che non avessi assaggiato, mogli, figlie, nipoti, amanti e fidanzate... Piace al dipendente e al collaboratore che il padrone manifesti interesse per la famiglia perché, hai visto mai... Così, me le proponevano essi stessi e facevo man bassa di un harem gratuito, variegato, sempre fresco e rinnovato e sempre disponibile.
«Non c’è nulla, mio caro, da raccontare - mi schernii - una giovinezza come tante, forse irresponsabile e scioperata ma non diversa dalle vostre».
«Non dite di no, Eccellenza. Sarebbe istruttivo per le nuove generazioni e anche per quelle di noi più anziane, cui spesso piace rifugiarsi nel ricordo o fantasticare sui ricordi altrui... E poi, qual miglior suggello per i novanta rintocchi, che ripercorrere a nostro beneficio i passi fondamentali compiuti?».
Li guardai tutti e uno a uno. Tutti devoti e fedeli in attesa della morte del padrone, com’è giusto che sia. Ma sapete com’è: ciascuno si sente immortale finché la nera falce non ci spicca il cranio dal collo. Quanto a me, alla mia età ero ancora ben forte e vigoroso... Poiché bisogna, a volte, essere magnanimi ma a volte esser duri, accettai ma alle mie condizioni, perché ricordassero chi era il padrone e chi, invece, non lo era... «Capisco - dissi - volete un auto-panegirico. Ebbene, non vi deluderò, ma dirò solo della pornografia della mia vita, cominciando dall’inizio. Pornografia, perché è quello che meritate e ciò nel quale siete sempre vissuti e ciò che meglio capite. Puri oggetti, vi manca la circolarità del desiderio, quella che innesca la poesia. Sull’amore non so dire, non lo conosco e, be’, lo giudico un po’ di più - o un po’ di meno - di una pernacchia... Quanto al resto che non vi dirò, è segreto commerciale. Ma vi avviso: il sesso si fa, non si racconta perché, a differenza del sesso, la pornografia è solo un’idea - come dire: è meglio l’oro o l’idea dell’oro? -  e come tale non serve a niente. Così, la regalo a voi che l’oro lo sognate perché non lo possedete. Chi non vuole, non ascolti».
Ciò detto, cominciai, tra la compunta attenzione generale.

Dicevano che la nonna fosse una irresistibile super gnocca baltica, ma proprio super e proprio gnocca e del tutto irresistibile, forse di origine livonica, forse svedese, non si sa. Sappiamo solo che, piovuta a Riga nemmeno quindicenne, non si sa da dove né come, fu, per carità cristiana e per preservarla da qualche brutta fine (così giovane e così gnocca com’era), adottata come mascotte dal reggimento e che, per riconoscenza, se li fece tutti quei boriosi ufficiali e quei vigorosi cadetti, ma proprio tutti, in ordine gerarchico naturalmente, per rispetto dell’autorità - e che fu così che conobbe il nonno, al quale fu assegnata come attendente per un credito di gioco, e che all’epoca era poco più di un soldatino forte e ingenuo ma di nobilissima famiglia e destinato a una brillante carriera. Gli si dedicò con passione e servizio assiduo e impeccabile giorno e notte, fino a stravolgergli l’anima e il corpo con il suo pelo biondo e la sua sapienza baltica, finché questi la sposò. Pare che il bisnonno, che si fregiava del titolo di principe imperiale, non fosse troppo d’accordo ma che ci pensasse ella a convincerlo con validi e, appunto, irresistibili argomenti. All’epoca, la regione era russa da più di duecento anni e mio nonno, da grande idealista alla Tolstoj, serviva fedelmente, oltre che la nonna, anche lo zar fino a morire come uno stupido eroe, combattendo con i Bianchi - e lo zar era già morto.. Vista la situazione ballerina, dopo la Rivoluzione mio padre fece man bassa anche di ciò che non era suo e ci caricò tutti su una nave per São Paulo, dove sbarcammo dopo un viaggio lungo e avventuroso e dove ci arricchimmo ancor più sfruttando fino all’osso la manodopera disponibile, secondo la feroce tradizione locale. Grazie, Ottobre Rosso!
Mio padre era un fanatico dell’Opera ma, soprattutto, delle cantanti. Diceva che solo loro lo sapessero succhiare veramente bene. Pare che faccia bene alla statica e alla meccanica delle corde vocali ricevere irrigazioni giornaliere di sperma caldo e denso e, in più, tenere il buco del culo sempre ben dilatato - per l’aerazione interna, dicono. Non so se sia vero ma fu dietro il palcoscenico del Municipal, dove avevamo libero accesso, che una vecchia soprano me lo succhiò a morte per la prima volta fra un atto e l’altro della Traviata mentre mio padre la inculava con la dedizione per il belcanto che gli era propria. Vecchia lo dico io, in rapporto alla mia età: non avevo che undici anni ed ella forse nemmeno trenta... ma da allora mi sono piaciute le attempate o, comunque, quelle più anziane di me. Solo ora, che sono io a esser vecchio, mi cibo di ragazzine perché, alla mia età, c’è bisogno di carne fresca, sempre più fresca... Con mia madre, invece, era tutta un’altra cultura e tutt’altro impegno sociale; frequentavamo artisti sconosciuti e squattrinati: musicisti, poeti e pittori, maschi e femmine (poche), che lei manteneva e si faceva anche tre o quattro o cinque per volta e io ero lì. Guardavo, facevo tesoro degli insegnamenti della vita e qualche volta partecipavo. E imparavo anche, così, ad apprezzare l’arte, la letteratura... Una giovinezza colta e felice.
    Venne il momento dell’università e fui mandato a studiar Diritto a Belo Horizonte nell’ateneo aperto da poco, perché mio padre manteneva interessi minerari nel Sudeste e potevo esser utile; fu perciò colà che mi misi a cercar casa. Potevo, in realtà, permettermi abitazioni di lusso e con servitori ma quel che veramente cercavo era una padrona di casa che me lo attizzasse, anche solo con l’immaginazione, ché al resto avrei provveduto comunque. Ero giovane, bello, vigoroso e pieno di soldi... e abituato a svuotare le palle più volte al giorno. Il corpo delle femmine, poi, mi faceva impazzire anche solo a guardarle, anche solo a pensarci. Quel profumo, quella morbidezza, quelle rotondità, tutti quei buchi... reali e virtuali che nessun maschio potrà mai dare nel medesimo modo. Alla fine, gira e rigira, la trovai.
    Era una villetta solitaria presso il lago, con un giardinetto curato e alberato tutto intorno, e un’aria di legno antico, brunito, dalla veranda rialzata su su fino al tetto spiovente, come non era usuale da quelle parti. Mi piacque sùbito la sua aria curata, distinta, da buona borghesia forse non più ricca ma ancora dignitosa. Ne faceva fede il cartello ben descritto con svolazzi a stampa esposto dietro il vetro:
ALUGUEL DE SALA.
Suonai. Aprì. Avrà avuto almeno sessant’anni, non bella ma ben conservata e, a modo suo (e a modo mio) dotata di un certo fascino selvaggio ma composto, attrattivo. La pelle liscia di poche rughe, naso adunco da sparviero (di quelli che ti s’affacciano per bene nel culo), occhi neri intensi e orientaleggianti (un accenno discreto di quella plica mongolica che mi ha sempre fatto sborrare) e quello sguardo... insieme perfido e promettente... ricordate le occhiate di Jane Russell in Gli uomini preferiscono le bionde? Sì? Proprio quelle! - con un trucco leggero, armonico al resto dell’età e della figura. Una gran vecchia gnocca di classe. Un caschetto corto, che i francesi dicono carré à la garçonne e, chi conosce il tipo, alla Louise Brooks, nero tinto ma non volgare. Ciò che sopra tutto appariva era, però, il petto, evidente, non strabordante ma alto e improbabilmente sodo a quell’età (all’epoca, non era ancora di moda rifarsi, tirarsi e spianarsi come adesso in Brasile!), che riempiva orgoglioso di sé la camicetta bianca a jabot, aperta quel che bastava senza volgarità. Gonna lunga, stretta, scura con un filetto bordò le fasciava i fianchi arcuati ma non non eccessivi. Snella con tette, insomma, il caso migliore. Mi squadrò curiosa da capo a piedi per poi sorridere appena rivelando fra le labbra sottili, appena tracciate di rosa pallido, una dentatura un po’ cavallina, ornata da un paio di capsule d’oro e appena aggettata sul davanti - il minimo, direi, visto quel discreto prognatismo che l’adornava e che prometteva di poterlo ingoiare tutto per lungo fino alla radice. «Stavo per prepararmi del tè - disse - ne volete?» e si voltò verso l’interno a esibire quel che ardevo di conoscere: un culo tondo e prominente, da affondarci le unghie e i denti.
Sedemmo sul divano tappezzato in raso di seta vecchio ma ben tenuto - come lei, insomma - a sorseggiare da porcellane cinesi molto fini. Lo spazio era poco e sentivo premere sulla mia il calore della sua coscia soda e il duro seno che mi aderì al braccio nel porgermi la tazza e tanto poco bastò per farmi reagire nei pantaloni. Fissò distrattamente il vuoto e intravidi una punta di linguetta far rapido capolino fra le labbra sorridenti e che sùbito scomparve. Posò la tazza e chiese se volevo visitare la camera e: «faccio strada» stabilì, precedendomi sulle scale di legno.
Quel culo mi oscillava davanti e saliva lento e sinuoso per farsi ben notare. Non so per quanti scalini ma per un’eternità di onde che avrei voluto non finissero mai. Si fermò in cima e aprì una porta fermandosi sull’uscio, la schiena dritta e le tette protese a bloccare il passaggio. «Spero - invitò - che quel che vedete vi aggrada». Mi appiccicai dietro per farglielo sentire che si strusciava e morderle la nuca mentre strinsi forte una chiappa. Non fece una piega appoggiandosi allo stipite, immobile a occhi chiusi in attesa del resto. Allora strinsi per bene l’arroganza di quel seno e le ficcai la lingua in bocca. Sapeva di bergamotto appena corretto al sapore del tè. Tenendola arpionata di bocca tetta e culo, la rovesciai sul letto e, per evitare che ci ripensasse, le sollevai sùbito la gonna fino alle mutande che scostai di lato donde proruppe un bel pelo nero qua e là appena screziato di grigio ma molto folto e riccio che sapeva anch’esso di bergamotto (ma senza la correzione del tè...) dove affondai la lingua e bevvi bevvi leccando e succhiando finché sentii che stava già venendo di lingua. Mi schiacciava la testa fra le cosce muscolose e mi teneva inchiodate le spalle sotto le ginocchia, i piedi incrociati sulla schiena per non farmi perdere la presa. La vecchia troia la sapeva ben lunga. Mi ero intanto aperto i calzoni e anche se già bello duro me lo menai ancora un po’ per rafforzarlo di più. Mi sollevai quanto bastava per strofinarglielo sulle labbra di fica che avevo ben bagnato (con le vecchie non si sa mai che non siano troppo secche - non era questo il caso) e con un colpo secco lo ficcai dentro. Ah, che delizia. Chissà da quanto era già pronta all’uso. Cominciò ad agitare i fianchi e sollevare il culo con le gambe in verticale prendendo insieme un unico ritmo forsennato sul letto cigolante allo spasimo. Credo che ci sentissero da lontano. Ogni tanto mi fermavo, fingendo di volerlo estrarre lentamente oh molto lentamente per costringerla a seguirmi con il corpo per terrore che lo levassi. Una pausa e poi un colpo secco a sorpresa quando meno ormai se lo aspettava e giù dentro tutto fino in fondo a farla gridare e il ritmo riprendeva veloce e il letto ci seguiva a cigolare ghi ghi e ghi ghi ed ella ah-ah-ah-ah sempre più veloci finché venne venni venimmo insieme e ci accasciammo l’uno sull’altro e dentro l’altro non potendone proprio più.
Le passai più volte una mano sulle cosce dove scorreva il mio sperma e glielo misi in bocca con le dita. Succhiava golosa e si leccava le labbra con la lingua, gli occhi fissi nei miei. Le piaceva proprio la sborra. Poi mi si accasciò davanti e lo ripulì ben bene, le tette fuori ad asciugarlo con una lunga e lenta spagnola. Se lo passava poi sulla faccia, gli occhi, le guance, sotto il naso e il mento come in adorazione e ancora in bocca e ancora fra le tette belle gonfie e sode e tonde come aveva il culo. Era evidente che lo rivolesse e la rivolevo anch’io. Per cui ci spogliammo del tutto e la girai a pancia giù - signori miei, neanche una goccia di cellulite su quella pelle tonica e liscia come una bambola di seta! Privilegi dell’età... Mi disse poi che faceva molta ginnastica... di culo, sicuramente! Così, glielo appizzai e impastai cominciando la preparazione. Un dito, due diti, tre, quattro, un po’ di lingua mentre la troia gemeva e mugolava in attesa che glielo sfondassi. E alla fine, eccolo dentro in tutto il suo splendore! Quel culo era una favola e proprio della mia misura. Strizzavo quelle chiappe come spugne e ci davo dentro fino alle palle. Quel culo sembrava non finir mai e mi veniva incontro assecondando il movimento. Ero venuto da poco, per cui potevo durare ben più a lungo e andammo avanti per un bel po’ col solito letto che gridava il suo piacere o forse, chissà?, il suo tormento per essere così sbattuto...
Presi la stanza, naturalmente, ma non dormii mai nel lettino singolo. La notte ci davamo dentro sul gran letto in camera sua e la mattina mi si impalava sopra ella stessa, approfittando del cazzo acquifero del risveglio mentre strizzavo le gran tette e di giorno, poi, quando tornavo dalle lezioni, era già bella pronta a culo appizzato e senza mutande e che pompini, signori miei, in quella gola golosa e infinita! Aveva il gusto del cazzo. Per il resto, me ne pascevo abbondantemente a onta dell’età, distesa languida come le dune del deserto, centimetro dopo centimetro e così faceva ella di me. Una forma di cannibalismo, se volete, o di fase orale dell’infante che porta alla bocca, per conoscerli, tutti gli oggetti del mondo. Mi piaci tanto che ti mangerei...
Ho sempre amato il seno, forse per impossibile memoria delle mammelle di mia madre, troppo piccolo per ricordarne, se non negli abissi del mio inconscio. L’ho amato così com’era, donna per donna, non come una propaggine autonoma da feticista, come dotato di vita propria, ma come un elemento strutturale, una frazione essenziale per la statica e la dinamica di qualsiasi architettura, come avviene per la base di una colonna o un capitello fiorito che dànno senso e vigore all’insieme. Non era il seno il vero interesse ma la femmina tutta intera e il seno una delle componenti essenziali cha davano, tutte insieme, il senso del tutto. Ciò che ci fa distinguere il genere al primo sguardo, più dei capelli, delle labbra, degli occhi e le oscillazioni dei fianchi, gonna o non gonna...
Così, non c’erano, oggettivamente, bei seni né brutti, ma rientrava ciascuno nell’armonia dell’insieme e non c’era disarmonia in nessun corpo, mai, perché tutto era funzionale all’equilibrio generale, come lo sono le pause nello scorrere delle note perché non c’è musica senza silenzio, dentro e all’intorno. E allora, signori miei, erano belli quelli grandi perché tali e adatti a colei che se ne adornava e perché in quel corpo andava bene così. Né cambiava il risultato per quelli piccoli, per quelli sodi e arroganti come un guerriero, quelli lunghi, flaccidi, piatti e bassi o quelli appena nascenti, adolescenziali, che inteneriscono come germogli, così come per quelli alti e distanti e perfino quelli giganteschi e irreali, posticci, esagerati e falsi come Giuda - com’è oggi di gran moda... Tutto adatto alla loro portatrice, e perfetto perché ogni corpo lo è. Come ogni donna lo è: esseri perfetti. Potrei identicamente dire di altro come degli occhi, i sederi o le labbra, ma il seno ha una marcia in più, e questa è, signori miei, i signor il capezzolo, il suo coronamento, ciò che dà il senso, il senso finale, epistemologico, direi. Quello che le cretesi, che la sapevano lunga, evidenziavano con il rossetto... Sì, il capezzolo è l’epistemologia del seno. Senza di esso, non è che un’anonima rotondità... Non a caso la famosa decenza, che oggi consente l’esponibilità, è assolutamente contraria a quella del capezzolo che non va mai rivelato se non all’amante in luoghi segreti e densi d’emozione, perché è simbolo del dono di sé!
Insomma, quelle tette erano morbide e sode insieme sotto le mie mani e la mia bocca, o era ella stessa a strusciarmi lentamente quei capezzoloni eretti come piccoli cazzi su tutta la pelle, all’infinito, e me ne pascevo e mi ci affondavo e in esse mi perdevo e viaggiavo di collina in collina e mi facevo piccolo e minuscolo, quasi infinitesimo di fronte a quelle superbe maestà - un sogno di tutti gli uomini...
Né le chiappe erano da meno e non ho mai leccato un buco del culo con più piacere - sapeva di bergamotto anche lì! L’impastavo a lungo senza tregua finché veniva solo per virtù di massaggio e di punta di lingua che solleticava la pelle dappertutto ma soprattutto dove sapevo che era più sensibile.
Con me la gran donna usava a preferenza le unghie, fini e a sesto acuto come ogive gotiche appena attondate ma quanto bastava a scarificarmi leggera la pelle con brividi che partivano dalle dita dei piedi e finivano per esplodermi alla nuca. O quei dentini un po’ cavallini che mordevano ad arte senza far male... Se lo infilava anche tutto in gola per il lungo e cominciava a salire con i denti dalla radice alla cappella come se volesse mangiarlo, raschiando, mordicchiando finché le esplodevo dentro come un vulcano. Sapeva come controllare la risalita del mio piacere, rallentandola ad arte affinché l’esplosione fosse inevitabile e quasi dolorosa come il big bang che creò il mondo... Una tecnica che sapevo usare anch’io perché non c’è solo la penetrazione, signori miei, che ci ripaga, ma c’è tutto il contorno che, a saperci fare, diventa sostanza e piatto forte! Ed era un peccato che non avesse più mestruazioni, perché bere quel sangue scuro e ricco di vita mi mandava sempre in estasi...
Comprai uno dei primi televisori e la sera ci si faceva placidamente e con lentezza sul divano di seta illuminati solo da quella tenue luce grigio azzurra finché capitava di addormentarsi al potere ipnotico dello schermo e stremati dalle lunghe pratiche sempre nuove e acrobatiche. Disponeva di fantasie che non ho mai riscontrato in altre femmine sì che potevo metterlo e strusciarlo in ogni anfratto e piega di quel corpo esperto e strausato ma tuttavia scattante e giovanile per amor di cazzo. Anche il pranzo diventava un pretesto erotico: bocconcini infilati qua e là l’un l’altra con le dita che penetravano insinuandosi negli anfratti e imbrattavano di sugo denso e appiccicoso da leccare e straleccare. Ci si lavava poi a lungo in una gran vasca da bagno che feci costruire appositamente, nella quale poterci stare anche in piedi, alla giapponese, e sbatterci poi contro le pareti nella carezza gorgogliante dell’acqua tiepida e saponosa...
Il sesso le piaceva proprio. Era la sua passione da sempre. «Eravamo tanti in famiglia - raccontò - poche femmine e molti maschi, per cui credo di non essere mai stata vergine. Me li facevo tutti, ma proprio tutti: babbo, nonni, zii, fratelli e cugini; e poi un miscuglio di madri, zie, sorelle che non ti dico, tutti a farsi tutti appena possibile in tutti i modi. Vivevamo in campagna, isolati e nessuno ci disturbava, nel paganesimo più assoluto - nostri dèi erano le piante, gli animali, le sorgenti, le rocce e il cielo; e fra i campi e nella stalla e nel fienile e nel lago e sugli alberi e sui tavoli e a letto e sulle sedie e per terra c’era sempre qualcuno infoiato - e io non ero da meno. Una specie di repubblica autonoma centrata sul piacere, che fu la mia prima scuola, appassionante. Poi, a quell’altra, divenni sùbito famosa tra i compagni e gli insegnanti. Quanti ne ho menato, succhiato, prosciugato, in classe e fuori, negli angoli di corridoio, nei gabinetti o nello stretto sgabuzzino delle scope dove il vecchio bidello mi prendeva finché ne avevamo voglia! Senza chiedere mai nulla in cambio! Ma chi veramente aveva una passione per me era il signor preside. Mi chiamava spesso nel suo ufficio a farselo succhiare nascosta sotto la scrivania mentre con sussiego e competenza professionale riceveva gli ispettori del ministero... oppure voleva che gli avanzassi davanti a passo di danza strizzandomi le tette, la gonna sollevata il bacino proteso e la fica ben in vista perché quel porco se ne venisse da solo nei pantaloni! Allora si buttava per terra e restava lì come morto finché gli strofinavo il culo sulla faccia e con un filo di voce chiedeva che gli pisciassi in bocca... un vero porco come non ne ho mai conosciuto. Intanto, mi crescevano le tette belle grosse e turgide con i capezzoli dritti come proiettili - avrò avuto quindici anni ma ero già ben procace e sviluppata... - e ci diedi dentro anche con quelle. Il corpo, a usarlo, si tonifica».
Già che era in vena di confidenze, rivelò poi le emozioni che sentì al nostro primo incontro.
«Sai, caro, quando ti ho visto sull’uscio, non volevo credere ai miei occhi e il cuore mi scoppiò nel petto. Eri l’immagine del poeta baiano che amai quando avevo dieci anni... bello come te, con questi capelli fluenti e i baffetti malandrini... Sedeva nel bosco su un tronco caduto, scriveva, chissà come ci fosse piovuto... certamente dal cielo. Mi gli fermai di fronte immobile incantata finché alzò lo sguardo e mi invitò sulle ginocchia. Ci baciammo appena a labbra strette e m’insegnò la poesia... i metri, i ritmi, le rime... declamava e spiegava; capivo poco ma sentivo musica nelle sue parole. Ricordo ancora qualcosa, che mi faceva sognare fuochi, foreste e soli cadenti...
Às vezes quando o sol nas matas virgens
A fogueira das tardes acendia...
Morì l’anno dopo... e non aveva che ventiquattro anni... l’unico uomo che amai e non andammo mai oltre quello sfiorar di labbra... Quando mi azzannasti in cima alle scale, come un lupo affamato, mi sembrò di far l’amore con lui per la prima e unica volta... e sentii che lo stavo ripagando della bellezza che mi aveva donato... Ma tu sei ben vivo, sei qui e sono felice». Scoprì il seno e me lo porse. «Succhia, succhia, bambino mio, succhiami l’anima...».
Non so. C’era del sentimento fra noi che non saprei definire. Un’attrazione fisica, certamente, come fra due calamite capovolte. Sempre appiccicati, sempre a strusciarci, abbracciarci, ma non solo quello. C’era che avevamo bisogno l’uno dell’altra, che ci cercavamo continuamente e che ciascuno, da solo, senza l’altro, non poteva stare... Che volete che vi dica... eravamo una coppia! Finché durò la mia permanenza, non vidi mai mosconi girarle intorno - né mai, a parte le confessioni iniziali, rivelò lo stato della sua situazione, chiamiamola, sentimentale... Tanto che, a parte le lezioni all’università e qualche incarico business da parte di mio padre, non uscivo quasi di casa perché avevo qui tutto ciò che preferivo: ero diventato uno studente modello e un bravo ragazzo casalingo, senza grilli per la testa... La ricordo con affetto e tenerezza. Che fosse amore per davvero? È questo l’amore? C’era certamente dedizione reciproca e appassionata... Ma non so di più e non voglio saperlo!
Mi chiese un giorno di volerle fare una cortesia. Aveva una nipote un po’ ritardata, nel senso che era stata messa in convento da giovane e, secondo lei, non aveva mai assaggiato il cazzo. Era ora che lo facesse, tanto per capire che si stesse perdendo. Poi, se avesse voluto, poteva benissimo continuare a darla a Dio... anche se, da come guardava le donne, si capiva che con le consorelle si desse abbastanza da fare... «Non è proprio una bellezza, sai - mi disse quasi scusandosi - e ha quell’aria zitellesca... ma, suvvia, bocca e culo e tette e fica ce l’ha come tutte. Dovrebbe arrivare a star qui con me per un po’; una specie di licenza obbligatoria prima di prendere i voti. Ti andrebbe di sbatterla per bene? Vorrei farle una sorpresa... Mi ringrazierà!». Potevo rifiutare?
E venne il giorno della zitella, un pomeriggio d’autunno con le prime piogge e il cielo striato di rosso-oro. Non era poi così male. Portava una bella cascata di capelli castano chiari, folti e naturalmente ondulati fin a metà schiena e che saltava sùbito all’occhio come la cosa più notevole di lei - quel profluvio che avrebbe dovuto tagliare quasi a zero il giorno che si fosse decisa a far la fedele sposa di Dio per sempre. Agli dèi non piacciono i capelli lunghi. Per il resto, era solida e il corpo accuratamente ingolfato in abiti ampi e lunghi ma si capiva che, sotto, c’erano cosce poderose a reggere un culo largo e piatto e s’indovinava un bel paio di tette - forse ampie e molli (non era la zia...) - ma, insomma, poteva dare anch’ella il suo piacere. Una struttura tradizionale e contadina, di quelle fattrici che zappano per ore infaticabili nei campi e trasportano, come fossero fuscelli, sécchi colmi di latte appena munto e fanno buona la minestra e buoni i figli... Mi vide sulla sedia a dondolo a succhiare il fumo del mio sigaro sulla veranda, leggere un libro. Si fermò interdetta, la valigia in mano, non sapendo se proseguire o andarsene, casomai avesse sbagliato indirizzo... Mi alzai, sorrisi e mi inchinai alla militare facendo ampio e lento gesto col braccio invitandola a entrare. In quella uscì la zia che le corse incontro a stringerla in un abbraccio famigliare. Fummo presentati e si tranquillizzò. Scomparvero al piano superiore e non le rividi che all’ora di cena.
Si era cambiata, lavata e profumata. Basse ballerine e un sobrio abito intero a fiorellini stretto da cintura in vita e gonna ampia a plissé lunga a metà polpaccio e il busto strizzato e piatto seppur ampio e ben disegnato sul quale pendeva una croce d’oro a riposare sull’attaccatura dei seni (ti vedo e non ti vedo) - qui c’era sotto il bustino d’ordinanza, pensai, inteso a schiacciare e nascondere più che a prorompere e sottolineare... La zia appariva, invece, più troiesca che mai. Una camicia di pizzo nero tutta abbottonata ma con ampie trasparenze sotto le quali faceva porca figura l’intimo nero a balconcino ben colmo e arrogante e una gonna grigio-perla plissettata anch’essa ma corta ben sopra il ginocchio e scarpe nere al tacco alto e squadrato, quasi da sado-maso (ma non ce la vedevo con lo staffile in mano; per quanto, chissà...). Perle al girocollo e orecchini di perla. Profumo intenso, di magnolia - e un fiore di magnolia fra i capelli! Una vera mineira.
La ragazza non era stupida e reggeva bene la conversazione anche se arrossendo ogni tanto ai miei garbati paradossi e alle risate scomposte della zia. Dopo cena, tutti e tre sul divano stretto a guardare la televisione e sbocconcellare biscottini che sembravano all’anice ma erano segretamente d’assenzio, io in mezzo, pressato dalle cosce di entrambe. Accettò titubante qualche sorso di liquore che le arrossò stabilmente i pomelli delle gote e mi venne inconsciamente più vicino finché si addormentò all’ipnosi dello schermo e a quella dell’alcol insolito, appoggiandomi il capo sulla spalla.
Quei capelli di sogno sapevano di pulito e mi solleticavano il viso, sì che la patta mi si sollevò decisamente. A quell’età mi bastava così poco! Pensò la zia a tirarmelo discretamente fuori e calmarlo sollecita con pochi sapienti colpi di bocca e di mano. Grazie, buona samaritana! Passai il braccio dietro le spalle della ragazza e la trassi ancor più su di me mentre la zia, là sotto, faceva il suo dovere. Ora il viso riposava sul mio petto e affondavo le narici in quelle volute tentatrici mentre con aria sovrappensiero le carezzavo discretamente con un dito i capezzoli sopra il vestito. La zia me lo ingoiava tutto e se lo tenne così, nascosto in quella gola capace e senza fine, la faccia sull’inguine, immobile come se dormisse - ma la lingua lavorava lenta, discreta ed efficace. La ragazza si riscosse e si svegliò appena, stupita di trovarsi così abbracciata a me e veder la zia immobile sulla mia patta. Le feci segno di far silenzio sussurrando: «s’è addormentata» ed ella si addolcì, carezzando amorevolmente il caschetto della zia che, puttanona qual era, si guardò bene dal riscuotersi, continuando a fingere quel sonno suggente del mio cazzo ormai prossimo allo spasimo. Ci guardammo, i visi vicini, sì che azzardai un leggero strofinamento dei nasi. Sorrise al gioco, e non fece caso alla mia carezza che continuava sul seno. «S’è fatto tardi - sussurrai - comincia ad andar tu; io provo a svegliarla pian piano». Non volevo, in realtà, che la zia sollevasse d’improvviso la testa dal mio grembo in sua presenza rivelando così il cazzo ben dritto e pronto a schizzare tutto intorno...
Si alzò barcollando. Tentò appena due passi ma mi crollò miseramente fra le braccia, definitivamente addormentata. Proprio niente male quelle tette. Ah, l’assenzio benedetto! Mi ricomposi e con la zia la sorreggemmo fino in camera, tenendola in due su per le strette scale. Ne approfittai per saggiare per bene quel culo con una mano mentre con l’altra arpionavo con decisione la bella tetta. In camera la tenni in braccio mentre la zia scostava coperte e lenzuolo, poi la deposi sul letto e cominciammo a spogliarla. Mutandine di cotone con fiorellini azzurri. Le scostai appena e diedi qualche veloce colpo di lingua nella fica, tanto per aiutarmi. Poi lo estrassi già ben duro e glielo ficcai in bocca. Poche segate di mano e di su e giù fra le labbra e le sborrai dentro. Finalmente. Chiusi quelle labbruzze a dormire con il mio sapore nel palato. D’istinto masticò appena nel sonno e ingoiò. Il primo passo era fatto. Tutta questa storia mi aveva turbato non poco e quella notte non dormì nessuno sul gran lettone cigolante...
La mattina commentavo con la padrona l’avventura della sera quando ella discese un po’ frastornata ma distesa e serena, con un pizzico, forse, di malizia in più. La chimica dello sperma cominciava, forse, a fare il suo effetto. La gran massa dei capelli le dardeggiava il volto incorniciando un sorriso ambiguo, da Gioconda... Come aveva dormito? Come un sasso, tenuemente rispose. La zia insistette per prendere la colazione nel gazebo cinesizzante sul retro perché la giornata prometteva bene. Capii il suo disegno quando lo vidi, chiuso tranne da un lato da alti roseti ancora fioriti, che ne facevano un nido discreto sotto alberi frondosi e attorniato da un profluvio di fiori profumati e colorati. Un incanto. Non mi ci aveva mai portato perché, immagino, ci facevamo sempre in casa, approfittando selvaggi e forsennati di ogni appoggio e sostegno domestico e quel luogo era adatto più all’amore che al sesso, del che la nostra foia non aveva certo bisogno. Ci lasciò poco dopo, protestando commissioni urgenti in paese. Così, eccoci sulla panca a guardarci gentili e sorridenti tra i fiori e la verzura e a sorseggiare il forte e nero caffè dell’inferno. Mi avvicinai e appoggiando amichevolmente una mano sulla coscia le chiesi se le fosse piaciuto il giochino del bacio fatto iersera con i nasi. Piegò il capo di lato e sorrise di sì. Lo rifacciamo? Ancora sì.
Ed eccoci abbracciati a strofinarci le punte dei nasi, ma quei nasi strofinavano tutto, dalla fronte agli occhi, le gote, in gola, gli orecchi e le labbra finché le dischiuse appena e la baciai. Dimostrò sùbito la sua competenza, acquisita, forse, con le consorelle e ce le attorcigliammo per bene quelle lingue serpentine suggendo le salive al sapore di caffè. Passai al seno dove affondai il viso e strofinai il naso sui capezzoli irti. Si alzò e spontaneamente mi si sedette in grembo di fronte, le cosce aperte a circondarmi il bacino. Chiuse gli occhi e cominciò a strofinarsi la fica sulla mia erezione che sentiva attraverso i vestiti... Hai capito la suorina? La zia, almeno stavolta, aveva peccato di eccessiva ingenuità il che suonava, in lei, come un peccato grave.
La stesi prontamente sul tavolo di pietra per cavarle le mutandine, ma non c’era più la cotonina a fiorellini; anzi, non c’erano mutandine di sorta, ma una bella ficona biondastra e pelosa tutta nuda e già bagnata di suo. Quella ragazza mi stupiva a ogni tratto e cominciava a piacermi sul serio. Lo estrassi bello gonfio agitandoglielo davanti; lo guardò con tenerezza e allargò ancor più le gambe, distendendosi sulla schiena, le braccia allargate a carezzare tutto il tavolo, pronta in attesa. Cominciai per precauzione, casomai fosse vergine, a strofinarlo sulle labbra e appena appena dentro con la cappella, come per preparare l’entrata trionfale ma ella diede un guizzo, lo afferrò a due mani e se lo mise tutto dentro di colpo! Buon sangue non mente: anche qui, come nella zia, la verginità non c’era forse mai stata! La pompavo con coscienza e dedizione, lentamente per durare di più e farglielo sentire un po’ di qua e un po’ di là fra le pareti della vagina, che teneva ben stretta la baldracchina per aumentare la pressione ed ella sempre zitta a prenderselo golosa scuotendosi tutta, un pollice in bocca come una bambina, ma muta di voce, senza quei sospiri e gridolini spontanei che aiutano tanto il lavoro, anche per poter capire il suo livello del piacere - forse in convento usava così, per discrezione e segretezza... Quando giudicai, dopo una buona mezz’ora, che stesse per venire, lo estrassi di colpo, guardandola divertito torcersi sul tavolo, scippata del piacere finale. «Ma che...?», disse e ricadde delusa sul tavolo di pietra. Brava stronzetta, pensai, così impari a imbrogliare. Ma poi, mosso a compassione, la girai sottosopra e glielo ficcai di brutto su per il culo senza preavviso. Mostrò di gradire... e andammo avanti così fino alla fine, io a pompare veloce ed ella a mugolare, stavolta, anzi ben forte e a lingua di fuori. Ma non era mia la vittoria: era sua perché non veniva mai, ne voleva ancora e sempre finché mi accasciai sul culone, del tutto spompato e senza più fiato né risorse. Che trombata, signori miei!
Quando la zia tornò, la misi al corrente di tutto e si fece una grassa risata, in un baluginare di denti d’oro. Prese la nipote per mano e se la portò in camera. Le osservavo nude a torcersi e sdilinguarsi, le reciproche teste fra le gran cosce e forte rumore di liquidi in risucchio. Mi masturbavo non potendo partecipare finché spruzzai quei corpi con una discreta quantità di sborra calda e appiccicosa. E allora si fermarono e presero a leccarsi le schiene l’un l’altra, per raccorgliela tutta e non sprecarne una goccia, come a farsi il bidet del gatto. E allora fui preso per mano per riconoscenza e sdraiato in mezzo alle troione a succhiarmi e segarmi con due lingue, quattro mani e quattro tette. Un servizio completo e molto efficace. Dal profondo delle mie caverne il piacere saliva, montava pian piano come un serbatoio che si riempie man mano. E allora venni e venni senza fine. E allora se ne andarono ridendo e mi abbandonarono tramortito e di traverso sul letto disfatto, senza più succo e completamente svuotato come non mai, leggero l’inguine come una piuma che sarebbe bastato un refolo a farmi fluttuare per la stanza...
«In convento cominciai sùbito, da brava novizia, - raccontò poi - a farmi fare dalle consorelle più grandi ed esperte, a coppie, a triplette e anche di più, nelle anguste celle dove abitavamo, ma la domenica veniva il confessore per la funzione al Signore e ci assolveva tutte e più volte a turno sulle panche della cappella con le vetrate decorate accese del sole del meriggio, tra i fumi degli incensi e delle candele profumate di cera d’api e sotto gli occhi vigili dei santi, guardoni immobili. Era anzianotto ma molto vigoroso e inesauribile, segno, questo, della benevolenza del Signore. In sua assenza - e con cautela per non farci male - usavamo poi di tutto, gli altri giorni, quando la fica urlava la sua fame e volevamo sentir dentro un bel po’ po’ di solido Spirito Santo del quale tanto parlano le Scritture: dalle candele agli asciugamani bagnati e ritorti, alle bottiglie, alle frutte e verdure oscene, ai mattarelli per stendere la pasta, e poi i gomiti, le mani fino ai polsi, anche su per i culi morbidi tonici e profumati e sempre troppo vuoti. Chi pregava più? Chi pensava all’anima e all’eterno? Non ne avevamo il tempo. Era una bella e appagante ossessione carnale... Era il nostro modo di pregare - chi dice che la devozione al Signore non debba dare la felicità? Non è il Cristianesimo la religione dell’amore? Così, pensavo di riposarmi un po’ la fica e il culo, la lingua e le mani con una tranquilla e tiepida vacanza dalla zietta adorata, ma non è andata così - ammise con un bel sorriso - e ora sono incerta se fermarmi a farmi dolcemente ancora sbattere in pace qui con voi sulle rive del placido lago o se tornare al mio dovere sull’aspro campo di battaglia della religione e innalzare alte in coro le dovute lodi al Signore. Ci penserò... Ora come ora, voglio solo dormire», e si ritirò in camera sua.
Ci guardammo e scoppiammo a ridere e ammettemmo che, forse, sì, sarebbe stato proprio il caso di accedere anche noi a una bella e lunga dormita...

«Si è fatto tardi, nonno - interruppe la bambolina preferita dai boccoli d’oro che non s’era persa una parola - andiamo a letto anche noi». Scese dal grembo e mi prese per mano costringendomi ad alzarmi. E ce ne andammo, il vecchio e la bambina, mano nella mano, a sdraiarci strettamente abbracciati e dormire, poi, il sonno dei Giusti.


Roma, 20-23 settembre 2016