domenica, settembre 25, 2016

Vasilij Doboj

Vasilij Doboj
Bujeu-Brian d’Araxe


Erano appena suonati novanta rintocchi. Parenti, discendenti, amici e colleghi erano intorno per la festa che presiedevo sulla poltrona padronale. Tenevo in grembo la mia bambolina preferita dai boccoli d’oro. Il brusio saliva dalla sala fin verso le volte affrescate; una pretenziosità, come tutta la magione, voluta da mio padre, fissato con un Rococò del tutto estemporaneo e, secondo me, fuori luogo in quest’angolo del Brasile. Diceva che gli ricordava San Pietroburgo dove aveva speso la giovinezza. Sarà (San Pietroburgo è più bella); ma quel tempo e quei luoghi sono trascorsi per noi e non credo negli spasimi della nostalgia, come l’ansia (che sa di morte) di farsi circoscrivere in uno spazio che pretende di annullare o riavvolgere la Storia, non diversamente dai collezionisti... La Storia rientra ogni attimo dalla finestra e ogni attimo ci trascina fuori, nel mondo attuale. Così, anche se è bello il Rococò, è meglio che se ne stia nel suo tempo; quello nostro vuole altro ed è giusto che lo viviamo in sua simbiosi, bene o male che sia, perché siamo vivi adesso, non tre secoli fa.
    Ma quella sera la cosa era diversa e qualcosa bisognava concedere. Quasi tutta la compagnia era composta da esuli russi e gli indigeni presenti ne erano discendenti, incrociati, inevitabilmente, con materiale umano locale. Ne derivavano caratteri misti, molto belli, nei quali le basi vichinga e mongola s’intrecciavano con quelle europea e africana: una meraviglia genetica, non solo nel corpo ma anche nello spirito e nella cultura. Sono sempre stato favorevole al meticciato che innalza la qualità umana ed è coerente con la Storia degli ultimi cinquantamila anni, a dir poco.
E quella sera la cosa era  diversa in modo inevitabile. Erano inevitabili le balalaiche e i violini, inevitabili le montagne di asietra, beluga e sevruga, inevitabile lo champagne rigorosamente armeno, così come ettolitri di kvas e di vodka del Caucaso, insieme con quelle zuppe troppo acide e quei dolci troppo dolci che non ho mai sopportato, e così via con tutto il folclore da cartolina. Ma capisco che servisse a tener viva l’identità nazionale di chi si sentiva, dopo tanti anni, ancora straniero... Contenti loro... Glielo concedevo, ogni dieci anni.
    «Non ci avete mai raccontato, Eccellenza, della vostra giovinezza...», disse un giovane e solerte funzionario il cui merito assoluto consisteva in una moglie così avvenente che non potei esimermi dal farmi e strafarmi spesso e volentieri. In realtà, non c’era femmina, in quel consesso, che non avessi assaggiato, mogli, figlie, nipoti, amanti e fidanzate... Piace al dipendente e al collaboratore che il padrone manifesti interesse per la famiglia perché, hai visto mai... Così, me le proponevano essi stessi e facevo man bassa di un harem gratuito, variegato, sempre fresco e rinnovato e sempre disponibile.
«Non c’è nulla, mio caro, da raccontare - mi schernii - una giovinezza come tante, forse irresponsabile e scioperata ma non diversa dalle vostre».
«Non dite di no, Eccellenza. Sarebbe istruttivo per le nuove generazioni e anche per quelle di noi più anziane, cui spesso piace rifugiarsi nel ricordo o fantasticare sui ricordi altrui... E poi, qual miglior suggello per i novanta rintocchi, che ripercorrere a nostro beneficio i passi fondamentali compiuti?».
Li guardai tutti e uno a uno. Tutti devoti e fedeli in attesa della morte del padrone, com’è giusto che sia. Ma sapete com’è: ciascuno si sente immortale finché la nera falce non ci spicca il cranio dal collo. Quanto a me, alla mia età ero ancora ben forte e vigoroso... Poiché bisogna, a volte, essere magnanimi ma a volte esser duri, accettai ma alle mie condizioni, perché ricordassero chi era il padrone e chi, invece, non lo era... «Capisco - dissi - volete un auto-panegirico. Ebbene, non vi deluderò, ma dirò solo della pornografia della mia vita, cominciando dall’inizio. Pornografia, perché è quello che meritate e ciò nel quale siete sempre vissuti e ciò che meglio capite. Puri oggetti, vi manca la circolarità del desiderio, quella che innesca la poesia. Sull’amore non so dire, non lo conosco e, be’, lo giudico un po’ di più - o un po’ di meno - di una pernacchia... Quanto al resto che non vi dirò, è segreto commerciale. Ma vi avviso: il sesso si fa, non si racconta perché, a differenza del sesso, la pornografia è solo un’idea - come dire: è meglio l’oro o l’idea dell’oro? -  e come tale non serve a niente. Così, la regalo a voi che l’oro lo sognate perché non lo possedete. Chi non vuole, non ascolti».
Ciò detto, cominciai, tra la compunta attenzione generale.

Dicevano che la nonna fosse una irresistibile super gnocca baltica, ma proprio super e proprio gnocca e del tutto irresistibile, forse di origine livonica, forse svedese, non si sa. Sappiamo solo che, piovuta a Riga nemmeno quindicenne, non si sa da dove né come, fu, per carità cristiana e per preservarla da qualche brutta fine (così giovane e così gnocca com’era), adottata come mascotte dal reggimento e che, per riconoscenza, se li fece tutti quei boriosi ufficiali e quei vigorosi cadetti, ma proprio tutti, in ordine gerarchico naturalmente, per rispetto dell’autorità - e che fu così che conobbe il nonno, al quale fu assegnata come attendente per un credito di gioco, e che all’epoca era poco più di un soldatino forte e ingenuo ma di nobilissima famiglia e destinato a una brillante carriera. Gli si dedicò con passione e servizio assiduo e impeccabile giorno e notte, fino a stravolgergli l’anima e il corpo con il suo pelo biondo e la sua sapienza baltica, finché questi la sposò. Pare che il bisnonno, che si fregiava del titolo di principe imperiale, non fosse troppo d’accordo ma che ci pensasse ella a convincerlo con validi e, appunto, irresistibili argomenti. All’epoca, la regione era russa da più di duecento anni e mio nonno, da grande idealista alla Tolstoj, serviva fedelmente, oltre che la nonna, anche lo zar fino a morire come uno stupido eroe, combattendo con i Bianchi - e lo zar era già morto.. Vista la situazione ballerina, dopo la Rivoluzione mio padre fece man bassa anche di ciò che non era suo e ci caricò tutti su una nave per São Paulo, dove sbarcammo dopo un viaggio lungo e avventuroso e dove ci arricchimmo ancor più sfruttando fino all’osso la manodopera disponibile, secondo la feroce tradizione locale. Grazie, Ottobre Rosso!
Mio padre era un fanatico dell’Opera ma, soprattutto, delle cantanti. Diceva che solo loro lo sapessero succhiare veramente bene. Pare che faccia bene alla statica e alla meccanica delle corde vocali ricevere irrigazioni giornaliere di sperma caldo e denso e, in più, tenere il buco del culo sempre ben dilatato - per l’aerazione interna, dicono. Non so se sia vero ma fu dietro il palcoscenico del Municipal, dove avevamo libero accesso, che una vecchia soprano me lo succhiò a morte per la prima volta fra un atto e l’altro della Traviata mentre mio padre la inculava con la dedizione per il belcanto che gli era propria. Vecchia lo dico io, in rapporto alla mia età: non avevo che undici anni ed ella forse nemmeno trenta... ma da allora mi sono piaciute le attempate o, comunque, quelle più anziane di me. Solo ora, che sono io a esser vecchio, mi cibo di ragazzine perché, alla mia età, c’è bisogno di carne fresca, sempre più fresca... Con mia madre, invece, era tutta un’altra cultura e tutt’altro impegno sociale; frequentavamo artisti sconosciuti e squattrinati: musicisti, poeti e pittori, maschi e femmine (poche), che lei manteneva e si faceva anche tre o quattro o cinque per volta e io ero lì. Guardavo, facevo tesoro degli insegnamenti della vita e qualche volta partecipavo. E imparavo anche, così, ad apprezzare l’arte, la letteratura... Una giovinezza colta e felice.
    Venne il momento dell’università e fui mandato a studiar Diritto a Belo Horizonte nell’ateneo aperto da poco, perché mio padre manteneva interessi minerari nel Sudeste e potevo esser utile; fu perciò colà che mi misi a cercar casa. Potevo, in realtà, permettermi abitazioni di lusso e con servitori ma quel che veramente cercavo era una padrona di casa che me lo attizzasse, anche solo con l’immaginazione, ché al resto avrei provveduto comunque. Ero giovane, bello, vigoroso e pieno di soldi... e abituato a svuotare le palle più volte al giorno. Il corpo delle femmine, poi, mi faceva impazzire anche solo a guardarle, anche solo a pensarci. Quel profumo, quella morbidezza, quelle rotondità, tutti quei buchi... reali e virtuali che nessun maschio potrà mai dare nel medesimo modo. Alla fine, gira e rigira, la trovai.
    Era una villetta solitaria presso il lago, con un giardinetto curato e alberato tutto intorno, e un’aria di legno antico, brunito, dalla veranda rialzata su su fino al tetto spiovente, come non era usuale da quelle parti. Mi piacque sùbito la sua aria curata, distinta, da buona borghesia forse non più ricca ma ancora dignitosa. Ne faceva fede il cartello ben descritto con svolazzi a stampa esposto dietro il vetro:
ALUGUEL DE SALA.
Suonai. Aprì. Avrà avuto almeno sessant’anni, non bella ma ben conservata e, a modo suo (e a modo mio) dotata di un certo fascino selvaggio ma composto, attrattivo. La pelle liscia di poche rughe, naso adunco da sparviero (di quelli che ti s’affacciano per bene nel culo), occhi neri intensi e orientaleggianti (un accenno discreto di quella plica mongolica che mi ha sempre fatto sborrare) e quello sguardo... insieme perfido e promettente... ricordate le occhiate di Jane Russell in Gli uomini preferiscono le bionde? Sì? Proprio quelle! - con un trucco leggero, armonico al resto dell’età e della figura. Una gran vecchia gnocca di classe. Un caschetto corto, che i francesi dicono carré à la garçonne e, chi conosce il tipo, alla Louise Brooks, nero tinto ma non volgare. Ciò che sopra tutto appariva era, però, il petto, evidente, non strabordante ma alto e improbabilmente sodo a quell’età (all’epoca, non era ancora di moda rifarsi, tirarsi e spianarsi come adesso in Brasile!), che riempiva orgoglioso di sé la camicetta bianca a jabot, aperta quel che bastava senza volgarità. Gonna lunga, stretta, scura con un filetto bordò le fasciava i fianchi arcuati ma non non eccessivi. Snella con tette, insomma, il caso migliore. Mi squadrò curiosa da capo a piedi per poi sorridere appena rivelando fra le labbra sottili, appena tracciate di rosa pallido, una dentatura un po’ cavallina, ornata da un paio di capsule d’oro e appena aggettata sul davanti - il minimo, direi, visto quel discreto prognatismo che l’adornava e che prometteva di poterlo ingoiare tutto per lungo fino alla radice. «Stavo per prepararmi del tè - disse - ne volete?» e si voltò verso l’interno a esibire quel che ardevo di conoscere: un culo tondo e prominente, da affondarci le unghie e i denti.
Sedemmo sul divano tappezzato in raso di seta vecchio ma ben tenuto - come lei, insomma - a sorseggiare da porcellane cinesi molto fini. Lo spazio era poco e sentivo premere sulla mia il calore della sua coscia soda e il duro seno che mi aderì al braccio nel porgermi la tazza e tanto poco bastò per farmi reagire nei pantaloni. Fissò distrattamente il vuoto e intravidi una punta di linguetta far rapido capolino fra le labbra sorridenti e che sùbito scomparve. Posò la tazza e chiese se volevo visitare la camera e: «faccio strada» stabilì, precedendomi sulle scale di legno.
Quel culo mi oscillava davanti e saliva lento e sinuoso per farsi ben notare. Non so per quanti scalini ma per un’eternità di onde che avrei voluto non finissero mai. Si fermò in cima e aprì una porta fermandosi sull’uscio, la schiena dritta e le tette protese a bloccare il passaggio. «Spero - invitò - che quel che vedete vi aggrada». Mi appiccicai dietro per farglielo sentire che si strusciava e morderle la nuca mentre strinsi forte una chiappa. Non fece una piega appoggiandosi allo stipite, immobile a occhi chiusi in attesa del resto. Allora strinsi per bene l’arroganza di quel seno e le ficcai la lingua in bocca. Sapeva di bergamotto appena corretto al sapore del tè. Tenendola arpionata di bocca tetta e culo, la rovesciai sul letto e, per evitare che ci ripensasse, le sollevai sùbito la gonna fino alle mutande che scostai di lato donde proruppe un bel pelo nero qua e là appena screziato di grigio ma molto folto e riccio che sapeva anch’esso di bergamotto (ma senza la correzione del tè...) dove affondai la lingua e bevvi bevvi leccando e succhiando finché sentii che stava già venendo di lingua. Mi schiacciava la testa fra le cosce muscolose e mi teneva inchiodate le spalle sotto le ginocchia, i piedi incrociati sulla schiena per non farmi perdere la presa. La vecchia troia la sapeva ben lunga. Mi ero intanto aperto i calzoni e anche se già bello duro me lo menai ancora un po’ per rafforzarlo di più. Mi sollevai quanto bastava per strofinarglielo sulle labbra di fica che avevo ben bagnato (con le vecchie non si sa mai che non siano troppo secche - non era questo il caso) e con un colpo secco lo ficcai dentro. Ah, che delizia. Chissà da quanto era già pronta all’uso. Cominciò ad agitare i fianchi e sollevare il culo con le gambe in verticale prendendo insieme un unico ritmo forsennato sul letto cigolante allo spasimo. Credo che ci sentissero da lontano. Ogni tanto mi fermavo, fingendo di volerlo estrarre lentamente oh molto lentamente per costringerla a seguirmi con il corpo per terrore che lo levassi. Una pausa e poi un colpo secco a sorpresa quando meno ormai se lo aspettava e giù dentro tutto fino in fondo a farla gridare e il ritmo riprendeva veloce e il letto ci seguiva a cigolare ghi ghi e ghi ghi ed ella ah-ah-ah-ah sempre più veloci finché venne venni venimmo insieme e ci accasciammo l’uno sull’altro e dentro l’altro non potendone proprio più.
Le passai più volte una mano sulle cosce dove scorreva il mio sperma e glielo misi in bocca con le dita. Succhiava golosa e si leccava le labbra con la lingua, gli occhi fissi nei miei. Le piaceva proprio la sborra. Poi mi si accasciò davanti e lo ripulì ben bene, le tette fuori ad asciugarlo con una lunga e lenta spagnola. Se lo passava poi sulla faccia, gli occhi, le guance, sotto il naso e il mento come in adorazione e ancora in bocca e ancora fra le tette belle gonfie e sode e tonde come aveva il culo. Era evidente che lo rivolesse e la rivolevo anch’io. Per cui ci spogliammo del tutto e la girai a pancia giù - signori miei, neanche una goccia di cellulite su quella pelle tonica e liscia come una bambola di seta! Privilegi dell’età... Mi disse poi che faceva molta ginnastica... di culo, sicuramente! Così, glielo appizzai e impastai cominciando la preparazione. Un dito, due diti, tre, quattro, un po’ di lingua mentre la troia gemeva e mugolava in attesa che glielo sfondassi. E alla fine, eccolo dentro in tutto il suo splendore! Quel culo era una favola e proprio della mia misura. Strizzavo quelle chiappe come spugne e ci davo dentro fino alle palle. Quel culo sembrava non finir mai e mi veniva incontro assecondando il movimento. Ero venuto da poco, per cui potevo durare ben più a lungo e andammo avanti per un bel po’ col solito letto che gridava il suo piacere o forse, chissà?, il suo tormento per essere così sbattuto...
Presi la stanza, naturalmente, ma non dormii mai nel lettino singolo. La notte ci davamo dentro sul gran letto in camera sua e la mattina mi si impalava sopra ella stessa, approfittando del cazzo acquifero del risveglio mentre strizzavo le gran tette e di giorno, poi, quando tornavo dalle lezioni, era già bella pronta a culo appizzato e senza mutande e che pompini, signori miei, in quella gola golosa e infinita! Aveva il gusto del cazzo. Per il resto, me ne pascevo abbondantemente a onta dell’età, distesa languida come le dune del deserto, centimetro dopo centimetro e così faceva ella di me. Una forma di cannibalismo, se volete, o di fase orale dell’infante che porta alla bocca, per conoscerli, tutti gli oggetti del mondo. Mi piaci tanto che ti mangerei...
Ho sempre amato il seno, forse per impossibile memoria delle mammelle di mia madre, troppo piccolo per ricordarne, se non negli abissi del mio inconscio. L’ho amato così com’era, donna per donna, non come una propaggine autonoma da feticista, come dotato di vita propria, ma come un elemento strutturale, una frazione essenziale per la statica e la dinamica di qualsiasi architettura, come avviene per la base di una colonna o un capitello fiorito che dànno senso e vigore all’insieme. Non era il seno il vero interesse ma la femmina tutta intera e il seno una delle componenti essenziali cha davano, tutte insieme, il senso del tutto. Ciò che ci fa distinguere il genere al primo sguardo, più dei capelli, delle labbra, degli occhi e le oscillazioni dei fianchi, gonna o non gonna...
Così, non c’erano, oggettivamente, bei seni né brutti, ma rientrava ciascuno nell’armonia dell’insieme e non c’era disarmonia in nessun corpo, mai, perché tutto era funzionale all’equilibrio generale, come lo sono le pause nello scorrere delle note perché non c’è musica senza silenzio, dentro e all’intorno. E allora, signori miei, erano belli quelli grandi perché tali e adatti a colei che se ne adornava e perché in quel corpo andava bene così. Né cambiava il risultato per quelli piccoli, per quelli sodi e arroganti come un guerriero, quelli lunghi, flaccidi, piatti e bassi o quelli appena nascenti, adolescenziali, che inteneriscono come germogli, così come per quelli alti e distanti e perfino quelli giganteschi e irreali, posticci, esagerati e falsi come Giuda - com’è oggi di gran moda... Tutto adatto alla loro portatrice, e perfetto perché ogni corpo lo è. Come ogni donna lo è: esseri perfetti. Potrei identicamente dire di altro come degli occhi, i sederi o le labbra, ma il seno ha una marcia in più, e questa è, signori miei, i signor il capezzolo, il suo coronamento, ciò che dà il senso, il senso finale, epistemologico, direi. Quello che le cretesi, che la sapevano lunga, evidenziavano con il rossetto... Sì, il capezzolo è l’epistemologia del seno. Senza di esso, non è che un’anonima rotondità... Non a caso la famosa decenza, che oggi consente l’esponibilità, è assolutamente contraria a quella del capezzolo che non va mai rivelato se non all’amante in luoghi segreti e densi d’emozione, perché è simbolo del dono di sé!
Insomma, quelle tette erano morbide e sode insieme sotto le mie mani e la mia bocca, o era ella stessa a strusciarmi lentamente quei capezzoloni eretti come piccoli cazzi su tutta la pelle, all’infinito, e me ne pascevo e mi ci affondavo e in esse mi perdevo e viaggiavo di collina in collina e mi facevo piccolo e minuscolo, quasi infinitesimo di fronte a quelle superbe maestà - un sogno di tutti gli uomini...
Né le chiappe erano da meno e non ho mai leccato un buco del culo con più piacere - sapeva di bergamotto anche lì! L’impastavo a lungo senza tregua finché veniva solo per virtù di massaggio e di punta di lingua che solleticava la pelle dappertutto ma soprattutto dove sapevo che era più sensibile.
Con me la gran donna usava a preferenza le unghie, fini e a sesto acuto come ogive gotiche appena attondate ma quanto bastava a scarificarmi leggera la pelle con brividi che partivano dalle dita dei piedi e finivano per esplodermi alla nuca. O quei dentini un po’ cavallini che mordevano ad arte senza far male... Se lo infilava anche tutto in gola per il lungo e cominciava a salire con i denti dalla radice alla cappella come se volesse mangiarlo, raschiando, mordicchiando finché le esplodevo dentro come un vulcano. Sapeva come controllare la risalita del mio piacere, rallentandola ad arte affinché l’esplosione fosse inevitabile e quasi dolorosa come il big bang che creò il mondo... Una tecnica che sapevo usare anch’io perché non c’è solo la penetrazione, signori miei, che ci ripaga, ma c’è tutto il contorno che, a saperci fare, diventa sostanza e piatto forte! Ed era un peccato che non avesse più mestruazioni, perché bere quel sangue scuro e ricco di vita mi mandava sempre in estasi...
Comprai uno dei primi televisori e la sera ci si faceva placidamente e con lentezza sul divano di seta illuminati solo da quella tenue luce grigio azzurra finché capitava di addormentarsi al potere ipnotico dello schermo e stremati dalle lunghe pratiche sempre nuove e acrobatiche. Disponeva di fantasie che non ho mai riscontrato in altre femmine sì che potevo metterlo e strusciarlo in ogni anfratto e piega di quel corpo esperto e strausato ma tuttavia scattante e giovanile per amor di cazzo. Anche il pranzo diventava un pretesto erotico: bocconcini infilati qua e là l’un l’altra con le dita che penetravano insinuandosi negli anfratti e imbrattavano di sugo denso e appiccicoso da leccare e straleccare. Ci si lavava poi a lungo in una gran vasca da bagno che feci costruire appositamente, nella quale poterci stare anche in piedi, alla giapponese, e sbatterci poi contro le pareti nella carezza gorgogliante dell’acqua tiepida e saponosa...
Il sesso le piaceva proprio. Era la sua passione da sempre. «Eravamo tanti in famiglia - raccontò - poche femmine e molti maschi, per cui credo di non essere mai stata vergine. Me li facevo tutti, ma proprio tutti: babbo, nonni, zii, fratelli e cugini; e poi un miscuglio di madri, zie, sorelle che non ti dico, tutti a farsi tutti appena possibile in tutti i modi. Vivevamo in campagna, isolati e nessuno ci disturbava, nel paganesimo più assoluto - nostri dèi erano le piante, gli animali, le sorgenti, le rocce e il cielo; e fra i campi e nella stalla e nel fienile e nel lago e sugli alberi e sui tavoli e a letto e sulle sedie e per terra c’era sempre qualcuno infoiato - e io non ero da meno. Una specie di repubblica autonoma centrata sul piacere, che fu la mia prima scuola, appassionante. Poi, a quell’altra, divenni sùbito famosa tra i compagni e gli insegnanti. Quanti ne ho menato, succhiato, prosciugato, in classe e fuori, negli angoli di corridoio, nei gabinetti o nello stretto sgabuzzino delle scope dove il vecchio bidello mi prendeva finché ne avevamo voglia! Senza chiedere mai nulla in cambio! Ma chi veramente aveva una passione per me era il signor preside. Mi chiamava spesso nel suo ufficio a farselo succhiare nascosta sotto la scrivania mentre con sussiego e competenza professionale riceveva gli ispettori del ministero... oppure voleva che gli avanzassi davanti a passo di danza strizzandomi le tette, la gonna sollevata il bacino proteso e la fica ben in vista perché quel porco se ne venisse da solo nei pantaloni! Allora si buttava per terra e restava lì come morto finché gli strofinavo il culo sulla faccia e con un filo di voce chiedeva che gli pisciassi in bocca... un vero porco come non ne ho mai conosciuto. Intanto, mi crescevano le tette belle grosse e turgide con i capezzoli dritti come proiettili - avrò avuto quindici anni ma ero già ben procace e sviluppata... - e ci diedi dentro anche con quelle. Il corpo, a usarlo, si tonifica».
Già che era in vena di confidenze, rivelò poi le emozioni che sentì al nostro primo incontro.
«Sai, caro, quando ti ho visto sull’uscio, non volevo credere ai miei occhi e il cuore mi scoppiò nel petto. Eri l’immagine del poeta baiano che amai quando avevo dieci anni... bello come te, con questi capelli fluenti e i baffetti malandrini... Sedeva nel bosco su un tronco caduto, scriveva, chissà come ci fosse piovuto... certamente dal cielo. Mi gli fermai di fronte immobile incantata finché alzò lo sguardo e mi invitò sulle ginocchia. Ci baciammo appena a labbra strette e m’insegnò la poesia... i metri, i ritmi, le rime... declamava e spiegava; capivo poco ma sentivo musica nelle sue parole. Ricordo ancora qualcosa, che mi faceva sognare fuochi, foreste e soli cadenti...
Às vezes quando o sol nas matas virgens
A fogueira das tardes acendia...
Morì l’anno dopo... e non aveva che ventiquattro anni... l’unico uomo che amai e non andammo mai oltre quello sfiorar di labbra... Quando mi azzannasti in cima alle scale, come un lupo affamato, mi sembrò di far l’amore con lui per la prima e unica volta... e sentii che lo stavo ripagando della bellezza che mi aveva donato... Ma tu sei ben vivo, sei qui e sono felice». Scoprì il seno e me lo porse. «Succhia, succhia, bambino mio, succhiami l’anima...».
Non so. C’era del sentimento fra noi che non saprei definire. Un’attrazione fisica, certamente, come fra due calamite capovolte. Sempre appiccicati, sempre a strusciarci, abbracciarci, ma non solo quello. C’era che avevamo bisogno l’uno dell’altra, che ci cercavamo continuamente e che ciascuno, da solo, senza l’altro, non poteva stare... Che volete che vi dica... eravamo una coppia! Finché durò la mia permanenza, non vidi mai mosconi girarle intorno - né mai, a parte le confessioni iniziali, rivelò lo stato della sua situazione, chiamiamola, sentimentale... Tanto che, a parte le lezioni all’università e qualche incarico business da parte di mio padre, non uscivo quasi di casa perché avevo qui tutto ciò che preferivo: ero diventato uno studente modello e un bravo ragazzo casalingo, senza grilli per la testa... La ricordo con affetto e tenerezza. Che fosse amore per davvero? È questo l’amore? C’era certamente dedizione reciproca e appassionata... Ma non so di più e non voglio saperlo!
Mi chiese un giorno di volerle fare una cortesia. Aveva una nipote un po’ ritardata, nel senso che era stata messa in convento da giovane e, secondo lei, non aveva mai assaggiato il cazzo. Era ora che lo facesse, tanto per capire che si stesse perdendo. Poi, se avesse voluto, poteva benissimo continuare a darla a Dio... anche se, da come guardava le donne, si capiva che con le consorelle si desse abbastanza da fare... «Non è proprio una bellezza, sai - mi disse quasi scusandosi - e ha quell’aria zitellesca... ma, suvvia, bocca e culo e tette e fica ce l’ha come tutte. Dovrebbe arrivare a star qui con me per un po’; una specie di licenza obbligatoria prima di prendere i voti. Ti andrebbe di sbatterla per bene? Vorrei farle una sorpresa... Mi ringrazierà!». Potevo rifiutare?
E venne il giorno della zitella, un pomeriggio d’autunno con le prime piogge e il cielo striato di rosso-oro. Non era poi così male. Portava una bella cascata di capelli castano chiari, folti e naturalmente ondulati fin a metà schiena e che saltava sùbito all’occhio come la cosa più notevole di lei - quel profluvio che avrebbe dovuto tagliare quasi a zero il giorno che si fosse decisa a far la fedele sposa di Dio per sempre. Agli dèi non piacciono i capelli lunghi. Per il resto, era solida e il corpo accuratamente ingolfato in abiti ampi e lunghi ma si capiva che, sotto, c’erano cosce poderose a reggere un culo largo e piatto e s’indovinava un bel paio di tette - forse ampie e molli (non era la zia...) - ma, insomma, poteva dare anch’ella il suo piacere. Una struttura tradizionale e contadina, di quelle fattrici che zappano per ore infaticabili nei campi e trasportano, come fossero fuscelli, sécchi colmi di latte appena munto e fanno buona la minestra e buoni i figli... Mi vide sulla sedia a dondolo a succhiare il fumo del mio sigaro sulla veranda, leggere un libro. Si fermò interdetta, la valigia in mano, non sapendo se proseguire o andarsene, casomai avesse sbagliato indirizzo... Mi alzai, sorrisi e mi inchinai alla militare facendo ampio e lento gesto col braccio invitandola a entrare. In quella uscì la zia che le corse incontro a stringerla in un abbraccio famigliare. Fummo presentati e si tranquillizzò. Scomparvero al piano superiore e non le rividi che all’ora di cena.
Si era cambiata, lavata e profumata. Basse ballerine e un sobrio abito intero a fiorellini stretto da cintura in vita e gonna ampia a plissé lunga a metà polpaccio e il busto strizzato e piatto seppur ampio e ben disegnato sul quale pendeva una croce d’oro a riposare sull’attaccatura dei seni (ti vedo e non ti vedo) - qui c’era sotto il bustino d’ordinanza, pensai, inteso a schiacciare e nascondere più che a prorompere e sottolineare... La zia appariva, invece, più troiesca che mai. Una camicia di pizzo nero tutta abbottonata ma con ampie trasparenze sotto le quali faceva porca figura l’intimo nero a balconcino ben colmo e arrogante e una gonna grigio-perla plissettata anch’essa ma corta ben sopra il ginocchio e scarpe nere al tacco alto e squadrato, quasi da sado-maso (ma non ce la vedevo con lo staffile in mano; per quanto, chissà...). Perle al girocollo e orecchini di perla. Profumo intenso, di magnolia - e un fiore di magnolia fra i capelli! Una vera mineira.
La ragazza non era stupida e reggeva bene la conversazione anche se arrossendo ogni tanto ai miei garbati paradossi e alle risate scomposte della zia. Dopo cena, tutti e tre sul divano stretto a guardare la televisione e sbocconcellare biscottini che sembravano all’anice ma erano segretamente d’assenzio, io in mezzo, pressato dalle cosce di entrambe. Accettò titubante qualche sorso di liquore che le arrossò stabilmente i pomelli delle gote e mi venne inconsciamente più vicino finché si addormentò all’ipnosi dello schermo e a quella dell’alcol insolito, appoggiandomi il capo sulla spalla.
Quei capelli di sogno sapevano di pulito e mi solleticavano il viso, sì che la patta mi si sollevò decisamente. A quell’età mi bastava così poco! Pensò la zia a tirarmelo discretamente fuori e calmarlo sollecita con pochi sapienti colpi di bocca e di mano. Grazie, buona samaritana! Passai il braccio dietro le spalle della ragazza e la trassi ancor più su di me mentre la zia, là sotto, faceva il suo dovere. Ora il viso riposava sul mio petto e affondavo le narici in quelle volute tentatrici mentre con aria sovrappensiero le carezzavo discretamente con un dito i capezzoli sopra il vestito. La zia me lo ingoiava tutto e se lo tenne così, nascosto in quella gola capace e senza fine, la faccia sull’inguine, immobile come se dormisse - ma la lingua lavorava lenta, discreta ed efficace. La ragazza si riscosse e si svegliò appena, stupita di trovarsi così abbracciata a me e veder la zia immobile sulla mia patta. Le feci segno di far silenzio sussurrando: «s’è addormentata» ed ella si addolcì, carezzando amorevolmente il caschetto della zia che, puttanona qual era, si guardò bene dal riscuotersi, continuando a fingere quel sonno suggente del mio cazzo ormai prossimo allo spasimo. Ci guardammo, i visi vicini, sì che azzardai un leggero strofinamento dei nasi. Sorrise al gioco, e non fece caso alla mia carezza che continuava sul seno. «S’è fatto tardi - sussurrai - comincia ad andar tu; io provo a svegliarla pian piano». Non volevo, in realtà, che la zia sollevasse d’improvviso la testa dal mio grembo in sua presenza rivelando così il cazzo ben dritto e pronto a schizzare tutto intorno...
Si alzò barcollando. Tentò appena due passi ma mi crollò miseramente fra le braccia, definitivamente addormentata. Proprio niente male quelle tette. Ah, l’assenzio benedetto! Mi ricomposi e con la zia la sorreggemmo fino in camera, tenendola in due su per le strette scale. Ne approfittai per saggiare per bene quel culo con una mano mentre con l’altra arpionavo con decisione la bella tetta. In camera la tenni in braccio mentre la zia scostava coperte e lenzuolo, poi la deposi sul letto e cominciammo a spogliarla. Mutandine di cotone con fiorellini azzurri. Le scostai appena e diedi qualche veloce colpo di lingua nella fica, tanto per aiutarmi. Poi lo estrassi già ben duro e glielo ficcai in bocca. Poche segate di mano e di su e giù fra le labbra e le sborrai dentro. Finalmente. Chiusi quelle labbruzze a dormire con il mio sapore nel palato. D’istinto masticò appena nel sonno e ingoiò. Il primo passo era fatto. Tutta questa storia mi aveva turbato non poco e quella notte non dormì nessuno sul gran lettone cigolante...
La mattina commentavo con la padrona l’avventura della sera quando ella discese un po’ frastornata ma distesa e serena, con un pizzico, forse, di malizia in più. La chimica dello sperma cominciava, forse, a fare il suo effetto. La gran massa dei capelli le dardeggiava il volto incorniciando un sorriso ambiguo, da Gioconda... Come aveva dormito? Come un sasso, tenuemente rispose. La zia insistette per prendere la colazione nel gazebo cinesizzante sul retro perché la giornata prometteva bene. Capii il suo disegno quando lo vidi, chiuso tranne da un lato da alti roseti ancora fioriti, che ne facevano un nido discreto sotto alberi frondosi e attorniato da un profluvio di fiori profumati e colorati. Un incanto. Non mi ci aveva mai portato perché, immagino, ci facevamo sempre in casa, approfittando selvaggi e forsennati di ogni appoggio e sostegno domestico e quel luogo era adatto più all’amore che al sesso, del che la nostra foia non aveva certo bisogno. Ci lasciò poco dopo, protestando commissioni urgenti in paese. Così, eccoci sulla panca a guardarci gentili e sorridenti tra i fiori e la verzura e a sorseggiare il forte e nero caffè dell’inferno. Mi avvicinai e appoggiando amichevolmente una mano sulla coscia le chiesi se le fosse piaciuto il giochino del bacio fatto iersera con i nasi. Piegò il capo di lato e sorrise di sì. Lo rifacciamo? Ancora sì.
Ed eccoci abbracciati a strofinarci le punte dei nasi, ma quei nasi strofinavano tutto, dalla fronte agli occhi, le gote, in gola, gli orecchi e le labbra finché le dischiuse appena e la baciai. Dimostrò sùbito la sua competenza, acquisita, forse, con le consorelle e ce le attorcigliammo per bene quelle lingue serpentine suggendo le salive al sapore di caffè. Passai al seno dove affondai il viso e strofinai il naso sui capezzoli irti. Si alzò e spontaneamente mi si sedette in grembo di fronte, le cosce aperte a circondarmi il bacino. Chiuse gli occhi e cominciò a strofinarsi la fica sulla mia erezione che sentiva attraverso i vestiti... Hai capito la suorina? La zia, almeno stavolta, aveva peccato di eccessiva ingenuità il che suonava, in lei, come un peccato grave.
La stesi prontamente sul tavolo di pietra per cavarle le mutandine, ma non c’era più la cotonina a fiorellini; anzi, non c’erano mutandine di sorta, ma una bella ficona biondastra e pelosa tutta nuda e già bagnata di suo. Quella ragazza mi stupiva a ogni tratto e cominciava a piacermi sul serio. Lo estrassi bello gonfio agitandoglielo davanti; lo guardò con tenerezza e allargò ancor più le gambe, distendendosi sulla schiena, le braccia allargate a carezzare tutto il tavolo, pronta in attesa. Cominciai per precauzione, casomai fosse vergine, a strofinarlo sulle labbra e appena appena dentro con la cappella, come per preparare l’entrata trionfale ma ella diede un guizzo, lo afferrò a due mani e se lo mise tutto dentro di colpo! Buon sangue non mente: anche qui, come nella zia, la verginità non c’era forse mai stata! La pompavo con coscienza e dedizione, lentamente per durare di più e farglielo sentire un po’ di qua e un po’ di là fra le pareti della vagina, che teneva ben stretta la baldracchina per aumentare la pressione ed ella sempre zitta a prenderselo golosa scuotendosi tutta, un pollice in bocca come una bambina, ma muta di voce, senza quei sospiri e gridolini spontanei che aiutano tanto il lavoro, anche per poter capire il suo livello del piacere - forse in convento usava così, per discrezione e segretezza... Quando giudicai, dopo una buona mezz’ora, che stesse per venire, lo estrassi di colpo, guardandola divertito torcersi sul tavolo, scippata del piacere finale. «Ma che...?», disse e ricadde delusa sul tavolo di pietra. Brava stronzetta, pensai, così impari a imbrogliare. Ma poi, mosso a compassione, la girai sottosopra e glielo ficcai di brutto su per il culo senza preavviso. Mostrò di gradire... e andammo avanti così fino alla fine, io a pompare veloce ed ella a mugolare, stavolta, anzi ben forte e a lingua di fuori. Ma non era mia la vittoria: era sua perché non veniva mai, ne voleva ancora e sempre finché mi accasciai sul culone, del tutto spompato e senza più fiato né risorse. Che trombata, signori miei!
Quando la zia tornò, la misi al corrente di tutto e si fece una grassa risata, in un baluginare di denti d’oro. Prese la nipote per mano e se la portò in camera. Le osservavo nude a torcersi e sdilinguarsi, le reciproche teste fra le gran cosce e forte rumore di liquidi in risucchio. Mi masturbavo non potendo partecipare finché spruzzai quei corpi con una discreta quantità di sborra calda e appiccicosa. E allora si fermarono e presero a leccarsi le schiene l’un l’altra, per raccorgliela tutta e non sprecarne una goccia, come a farsi il bidet del gatto. E allora fui preso per mano per riconoscenza e sdraiato in mezzo alle troione a succhiarmi e segarmi con due lingue, quattro mani e quattro tette. Un servizio completo e molto efficace. Dal profondo delle mie caverne il piacere saliva, montava pian piano come un serbatoio che si riempie man mano. E allora venni e venni senza fine. E allora se ne andarono ridendo e mi abbandonarono tramortito e di traverso sul letto disfatto, senza più succo e completamente svuotato come non mai, leggero l’inguine come una piuma che sarebbe bastato un refolo a farmi fluttuare per la stanza...
«In convento cominciai sùbito, da brava novizia, - raccontò poi - a farmi fare dalle consorelle più grandi ed esperte, a coppie, a triplette e anche di più, nelle anguste celle dove abitavamo, ma la domenica veniva il confessore per la funzione al Signore e ci assolveva tutte e più volte a turno sulle panche della cappella con le vetrate decorate accese del sole del meriggio, tra i fumi degli incensi e delle candele profumate di cera d’api e sotto gli occhi vigili dei santi, guardoni immobili. Era anzianotto ma molto vigoroso e inesauribile, segno, questo, della benevolenza del Signore. In sua assenza - e con cautela per non farci male - usavamo poi di tutto, gli altri giorni, quando la fica urlava la sua fame e volevamo sentir dentro un bel po’ po’ di solido Spirito Santo del quale tanto parlano le Scritture: dalle candele agli asciugamani bagnati e ritorti, alle bottiglie, alle frutte e verdure oscene, ai mattarelli per stendere la pasta, e poi i gomiti, le mani fino ai polsi, anche su per i culi morbidi tonici e profumati e sempre troppo vuoti. Chi pregava più? Chi pensava all’anima e all’eterno? Non ne avevamo il tempo. Era una bella e appagante ossessione carnale... Era il nostro modo di pregare - chi dice che la devozione al Signore non debba dare la felicità? Non è il Cristianesimo la religione dell’amore? Così, pensavo di riposarmi un po’ la fica e il culo, la lingua e le mani con una tranquilla e tiepida vacanza dalla zietta adorata, ma non è andata così - ammise con un bel sorriso - e ora sono incerta se fermarmi a farmi dolcemente ancora sbattere in pace qui con voi sulle rive del placido lago o se tornare al mio dovere sull’aspro campo di battaglia della religione e innalzare alte in coro le dovute lodi al Signore. Ci penserò... Ora come ora, voglio solo dormire», e si ritirò in camera sua.
Ci guardammo e scoppiammo a ridere e ammettemmo che, forse, sì, sarebbe stato proprio il caso di accedere anche noi a una bella e lunga dormita...

«Si è fatto tardi, nonno - interruppe la bambolina preferita dai boccoli d’oro che non s’era persa una parola - andiamo a letto anche noi». Scese dal grembo e mi prese per mano costringendomi ad alzarmi. E ce ne andammo, il vecchio e la bambina, mano nella mano, a sdraiarci strettamente abbracciati e dormire, poi, il sonno dei Giusti.


Roma, 20-23 settembre 2016

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