domenica, novembre 21, 2010

Frammentingo

In questa città di cupole e di cielo azzurro ritento, forse definitivamente o forse per la prima volta, di riannodare i fili che, intrecciati e ridisciolti, mi hanno portato, come tenuto per mano da un invisibile destino, a questo presente assente di lei.

La città autunnale è fredda, lucente nei suoi marmi curvi come una tela gonfia di vento, marmi che ondeggiano sotto le nubi bianche dell'estenuante azzurro e che impongono a me, camminatore delle sue strade, l'anomalia dell'unico essere vivente in uno spumeggiare di pietre corrose e tuttavia salde nella loro alterità. Persone, viandanti mi attraversano, mi urtano nella calca ovattata di un fiume di cadaveri silenziosi, puri oggetti eppure altrettanti centri di coscienza ognuno dei quali potrebbe percepirmi come un altro degli infiniti cadaveri che percorrono le sue strade. Questa città non ha fine, se pure ha avuto un principio. Cammino e le facciate si dispongono in strategie scenografiche come quinte di teatro mobili forse su ruote e mosse da un meccanismo perverso segreto, affinché la mia percezione della città risulti sempre più accattivante, la più olimpica e palladiana, prospettive falsate e anamorfiche a dare l’illusione della realtà che si ricompone al cammino sì che mi è inutile voltare lo sguardo cercando di sorpendere l’imbroglio del meccanismo. Queste strade sono gli snodi di un labirinto dal quale non è possibile uscire, un labirinto cieco, con troppe false uscite a tenere imprigionate, forse per sempre, le vite che l'alimentano, che cedono alle bianche pietre l'energia che le tiene connesse. Una città vampiro. Quel medesimo vampiro che in ciascuno di noi, propaggine animale della città, ci fa nutrire delle forze biochimiche e delle impressioni e degli amori che intrecciamo, campi che ci alimentano e che abbandoniamo una volta svuotati di ogni essenza come cariossidi vuote.

Flussi fluire
dalla calca tappeto di mosche su
verso queste cupole e l’azzurro spietato
onde di luce nera
e d'argento la luna
i cadaveri percorrere che mi circondano
fuori da orbite vuote
occhi rapiti
precipitarsi in altre
vuote.

E su questo essa
la città
immobile e gonfia e tronfia
delle vite che si snervano
per tenerla in vita.
* * *

Il Caffè della Gatta è silenzioso. I camerieri avvolti in un lungo grembiule ben sotto le ginocchia sono spettri corporei sudari neri che scivolano sulle suole come pàttini. Aggiungo acqua ghiacciata al Pernod godendo dell'emulsionare lattiginoso. Nella solitudine del locale, spargo i miei diari sul tavolino. Ogni volta che ne ho avuto bisogno sono tornato in questi vani grigi dove l'inverno impregna i muri anche nelle estati più torride. Ci sono stato con F quando stabilivamo, all'assente presenza della sua minorenne di turno, i piani della nostra scalata alchemica al mondo e ci sono stato con R quando ancora non sapevamo che l'anomalia cardiaca l'avrebbe portata alla morte e quante volte con G quando costruivamo come adolescenti le tessere della nostra breve felicità. Ci sono tornato più volte da solo, con il piacere ermetico e anche un po' vile di non essere riconosciuto dal personale, assente e compito, inteso a chiacchiere senza fine nell'altra stanza come una parodo e uno stasimo domanda e risposta inarrestabili flussi di non coscienza e con quell'aria grave e distaccata e indifferente di chi ti serve per dovere astratto come un esercizio di coscienza e sua cortesia a ripetere gesti gratuiti e vuoti e come trascendenti o come un indiato che vive solo nella realtà delle parole scambiate nell'orizzonte chiuso che lo tiene. Il signore è servito è la formula antica e che non vuol dire niente se non se stessa che accompagna, forse solo qui, ogni appoggiare di tazze e bicchieri sul tavolino dietro il quale ti trinceri e che potrebbe per lui anche non essere occupato come fosse il tavolino il vero cliente, tu per lui inesistente a osservare il mondo che è rimasto fuori e il lungo grembiule svolazza come il camice di un aborrito medico in corsia e già mentre si allontana riprende lo scambio interrotto con l'interlocutore dell'invisibile orizzonte. Poi è ancora solitudine, concentrazione vanificata dai voli delle immagini che la mente non riesce a dominare, silenzio non rotto dal vociare che proviene dall'altra stanza. Parole che sento ma non ascolto, che scivolano dall'attenzione perché non sono mie, non mi riguardano né appartengono.

Osservo e non leggo le carte che ben conosco, i fogli inutilmente raccolti e perduti, che porto con me come la prova feticista della confessione, con il poeta, che ho, forse, vissuto. Lei c'è e non c'è, assente e tuttavia presente e questo amore, violento come un monsone improvviso che non smette, esige il prezzo di una conoscenza a lungo nascosta sotto il tappeto. La vita mi è scivolata accanto e mi ha colto di sorpresa e io dov'ero?

Duramente, ora, gattonando
fuori dal letto sfatto
dal risveglio prima del sogno
di immaginari diversi come cristalli di ghiaccio
onironauta di felicità non condivisa
quanto il tempo di pianeti che scorrono di momenti d'inerzia rotazione
allineati e poi ritratti.

Polvere che soffia ché venga la pioggia e modana intanto i dossi
aridi dell'attesa
aderendo come se non esistesse.


Traccio una rotta che mi porti dall’apparenza delle parole, le parole che sono stato, ai progetti della mente, le intenzioni nascoste a loro stesse pur nella veglia degli inganni, fino alla forza che è gioia e consapevolezza del sacrificio ma il vento non gonfia le vele a presentire come in una nebbia lucente il nòcciolo dello scoglio sommerso, dritto veloce sul naufragio che sarà le nostre vite a lungo. Ecco: navighiamo entrambi il nostro mare ciascuno per sé a volte insieme come delfini un po’ sopra e un po’ sotto a volte separati e contrapposti come mete di ciascuno e di uno solo di noi.

Passo veloci i diti
sulle corde della memoria e l'archetto
sale e scende e strappa
stridi
di un cauto presente
e oltre è solo silenzio.


Questo tempo vissuto come picchi in su e in giù di corrente alternata che non voleva saperne di raddrizzarsi stabile banale quotidiana alla quale tuttavia entrambi anelavamo per riposare finalmente il volto nell'ascella dell'altro... C'era come una circolarità continua del sogno che era troppo sogno e nel risveglio, ogni volta, più sogno di entrambi e ogni volta risveglio di solitudine negazione abbandono inchiavardato ciascuno nelle mura di un orizzonte differente come faglie tagliate e scorse più su e più giù per sempre.

Chiudono le parole un muro l’accesso e scivolo nel nulla del suo disperato arroccamento, ma ho voluto lo stesso tenace come se lo presentissi nascondere su di me il segno della sua presenza, del suo passaggio stabile nella mia vita come un marinaio che incroci la prima volta l’equatore e questo equatore porta il simbolo inguinale del suo nome inciso come uno zolfo acre che mi fissa l’anima per sempre.

* * *

F mi sveglia alla metà della notte. L'ho trovato, dice assoluto e febbricitante. Un corvo gli ha indicato la strada. Sùbito. Tempo due giorni, sono in viaggio per il cuore di quel massiccio di garoux e di lutins che si prenderà i miei sogni.

La dimora dei papys dove eravamo stati alla fine accolti era trascorsa da spifferi sonori come sirene che saettavano da sotto le porte sollevate sul pavimento di pietra, che interagivano con la musica della ghironda animata dalle dita congelate del libraio, la tavola della cena scarna colma di cadaveri verticali di rosso di monovitigno e di qualche vendemmia tardiva omaggio di Daniel e grappe domestiche nelle quali il peso degli alcol metilici nascosti impastava la lingua esaltando le emozioni e generando, tra il denso fumo dei sigari e un persistente odore di cane bagnato, la partenogenesi delle immaginazioni. Creavamo fantasmi razionali e strategie di secoli mescolando con grado, peso e misura metallurgia astrolatria fisica nucleare musica delle sfere biologia degli enzimi acque sotterranee insieme con le poesie vegetali della vecchia strega, lupi mannari con la loro magia animale e ordini cavallereschi e madonne nere. Uscendo a orinare nell'orto gelido sentivamo le stelle testimoniare la loro esistenza sopra le nubi dense come corpi avvolti in mantelli grigi e senza luce. La notte portava spirali di neve che sembravano accompagnarci nei letti improvvisati fin dentro i vestiti accuratamente abbottonati e sotto le spesse coperte che non scaldavano se non per il sudore della fatica di sorreggerle. Giorni e notti di accurata perfezione con gesti lenti e coscienti di danza, di muri a secco tirati su a blocchi di pietra, lavori infaticabili nei campi a far legna o estrarre linfa dalle betulle, sgranare frutti di rosa canina tra i polpastrelli intirizziti, strisciare infangati sul ventre nei cunicoli labirintici di miniere abbandonate da sempre dove le residue vene del metallo, illuminate dalle torce elettriche tenute in bocca, parevano minuziosamente copiate da atlanti di anatomia.

Mi ero affrancato dalla città e dal me stesso di sempre sapendo che vi sarei tornato.

Quella giornata era particolarmente uggiosa e piena d'acqua nell'aria, né era riscaldata dal fumo dei fiati che come propaggini aeree prolungavano all'esterno il calore dei corpi, sùbito dissolti nell'aria fredda e pesante. Un borgo di poche case grigie e dagli intonaci sporchi e consumati seppellite in una valle fuori mano di un luogo senza storia nell'inverno del massiccio centrale. Il ghiaccio dell'erba mattutina permaneva lucente e strideva, pur nel pomeriggio inoltrato, sotto gli scarponi bagnati di gocce iridescenti. Lavoravamo intorno al forno o comunque poco lontano, cercando di assorbire le centinaia di gradi che irradiava sulla parete di pietra alla quale era addossato e che il riverbero gettava come un regalo nella nostra aria bagnata. I volti illuminati e bruciati dalla fiamma percepivano con maggior forza il freddo che attanagliava i dorsi non esposti. L'amianto gelido dei guanti stringeva a fatica i pochi attrezzi condivisi. Un mortaio di ferro, un pestello brunito pesante come una meteora, setacci fini, cucchiai metallici consunti sottratti a qualche mensa dei poveri, bacili di piatta terracotta, una lastra di ferro. L'affanno s'incaponiva a rendere cipria una grossa scheggia di minerale, da asciugare dell'umidità su un fornello da campo e, al comando di Estevao, aggiungerla a piccole dosi nel crogiolo dell'inferno, evitando di respirarne gli invisibili vapori arsenici. Il veleno ci assediava. Siamo tutti intossicati dal fuoco, era la sua consolazione, come un destino al di là del sistema solare, che avevamo deciso di assecondare oltre la perdizione.

Di tanto in tanto annusava il regime del fuoco e la temperatura di fusione e dava le sue correzioni. Procedeva male. F e N si punzecchiavano come galli senza risparmio di frecce spiccate dalle balestre dei loro cuori, né capivamo perché. Nuvole di nervosismo galleggiavano come i fumi dei nostri fiati e si lasciavano mollemente cadere sulla polvere che cercavamo di seccare nell'aria satura di umidità. Dimentica la fisica che sai, ammoniva arrotolando l'ennesima sigaretta ostica del tabacco da pochi franchi. Non stai asciugando l'umidità molecolare ma quella radicale. Estevao guardava il balletto, grattando preoccupato il grigio della barba ispida e incolta. Non pareri né giudizi ma solo l'osservazione dei fatti. Lo spessore del conflitto gravava sull'operazione e la cottura non riusciva a procedere.

Nera nella tuta da motociclista che stringeva l'elegante snellezza della figura, N fluiva parole come torrenti di disgelo che esplodono da sotto croste ghiacciate, alle quali F rispondeva perfidamente a tratti ma con provocazioni che alimentavano il ciclo. La femme n'est pas prête cadde il bisbiglio di Estevao, in una delle pause d'onda che ogni tanto zittivano la risacca, come se parlasse al forno nel quale aveva ficcato la faccia. N abbandonò il pestello e si allontanò come una Diana sdegnata. In poche altre ore di lavoro silenzioso che gravava sui muscoli delle spalle massacrate, completammo l'opera e la pasta fu distesa sulla lastra di ferro. Traguardando il cielo nuvoloso si notavano imperfezioni di vinaccia nel bordò compatto del vetro. Avevamo comunque raggiunto una meta anche se, forse, inutile. Tenni con me quella prova per anni per guardare periodicamente il sole e indurre trasformazioni che non colsi o seppi cogliere o non avvennero del tutto. Poi una mossa maldestra di P in un momento di furore anti-polvere mandò in pezzi l'illusione, troppo piccoli per riutilizzarli, seppelliti in una scatola dietro la libreria e della quale ho perduto la memoria.

Rivedo quegli anni come un intervallo di febbre cruciale nella continuità delle trasformazioni poco tenacemente perseguite. Era come esser presi per incantamento in una serie di atti e di pensieri preordinati ma dei quali non vedevamo la strategia. Giri in giro notturni a farsi consumare dal fuoco con dentro la sete bruciante di un approdo che non veniva, accuratamente? soddisfatta. Se non vedi non vuol dire che non ci sia e quel che vedi non è detto che esista davvero. Una formula assolutamente vera e tuttavia buona per tutti gli usi, come la verità. Picchi luccicanti come la notte nel bosco a scoperchiare il crogiolo e vedere la nascita e il dissolversi di mondi, galassie e sistemi solari in miniatura, mentre intorno le erbe serpentine sul terreno assumevano lucori fluorescenti che si allontanavano dal crogiolo in tutte le direzioni disperdendosi nel fitto delle piante testimoni. Di che cosa siamo stati partecipi? Un urlo cosmico si levava silenzioso dai nostri petti sbigottiti e saliva fino alle stelle che filtravano tra le querce. Nessuno dormì quella notte e nessuno commentò. Eravamo gelosi di trattenere in noi emozioni non governabili. Il pianto disperato che genera il bordo dell'abisso, quando l'incapacità a comprendere spinge il desiderio più oltre, verso immensità troppo grandi e a rischio di colmare di felicità assoluta ogni frammento troppo piccolo per coincidere con un'immensità che non si può contenere. Fu quella notte il vero principio della fine.

Affilare l'intelletto come una lama e sezionare il cuore come durante la resistenza contro la tentazione settaria, mai sopita e inevitabile in qualunque insieme. Ora non c'è più nulla o, almeno, più nulla sembra serio. Daniel si è nascosto anche se la forma materiale rimane incrociabile da coordinate spaziali precise. Estevao è tornato presso di sé e anche gli altri rintracciabili si sono a poco a poco dissolti come fiumi carsici o dispersi come se un setaccio gigantesco avesse riseminato sabbia sulla spiaggia. Da quella depressione incistata non sono del tutto affrancato. È rimasta come un orizzonte di possibilità ristretto e soffocante, una sconfitta strategica del mio progetto di me, in tensione di rivincita o di superamento ma debole e  di poca speranza, sulla quale l'amore per la dialettica non basta a confidare e della quale soprattutto P ha fatto le spese. P che, saggiamente?, non ha mai voluto acquisire le letture che le somministravo, come cartine di tornasole della nostra intesa e per certezza di usare tra di noi termini e pensieri condivisi come se il mio essere segreto non valesse la pena di attrazione. Il suo fuoco era più radicale della mia acqua, le sue piramidi coriacee alle mie onde. Non ho saputo essere il sale che compone gli opposti... e il suo, di segreto, mi è sempre rimasto estraneo.

E ancora, Nancy e F e C congelati come pilastri nella fredda sera ingàuna. Mi reimmergo con piacere negli occhi mediterranei di una Nancy solo un poco appesantita dalla maternità, rispetto a quando si presentava come un'americana ignorante smaniante per la danza e che guardava con indifferenza le cupole e con sospetto i ruderi della città, che scivolavano intorno alla nostra motocicletta. I tarocchi le dicevano che il terrore di se stessa (ma ora nega: I was fearless until I was a pregnant...) l'avrebbe fatta dissolvere nel corrosivo che i buddisti a piene mani vendono meritoriamente e a caro prezzo agli occidentali. F ne ha sopportato e ancora e a lungo le conseguenze. L'immagine di famiglia che ora dànno di sé come una trinità perfetta, è messa in dubbio solo dalla persistente improbabilità di F.

F e io, immediatamente simbionti e innamorati, un amore maschile della mia vita, più radicale e interiore di quanto vissuto nella città del golfo, quando godevo delle compiacenze e delle complicità di un nuovo padre. Giovinezze, le nostre, esaltate sui giochi occulti dell'intelletto e sul mistero infinitesimo e sempre rinnovato delle regole segrete delle cose. Alchimia, la struttura nascosta. Come dall'incantesimo di una strega, ero predato dall'efficacia dei suoi marcatori somatici, che da due punti vicini sapevano identificare con certezza d'emozione la retta vettrice e aderivo spontaneamente a quelle verità che l'esperienza della frequentazione rivelava sempre esatte. Il gioco del gallo e della gallina, come vedevano giusto i compagni di liceo, la parte femminile si fidava della sicurezza super umana. Il libro di aforismi scritto a china a quattro mani su carta velina con caratteri pseudo gotici che ho rilegato a refe con introduzione con prosopopea fenomenologica condotta su Rabelais e l'immagine non è una cosa insieme con l'emozione è una pratica magica del primo Sartre. Notti a giocare a carte incredibilmente ubriachi di kümmel, strappargli teatralmente di mano il revolver scarico che punta contro la prostituta che lo tradisce, entrambi in crisi di vano priapismo à draguer les poules de Provence, fingere di leggere il giornale mentre lancia a oltre 200 la Maserati di famiglia sulla litoranea... Siamo sempre stati in contatto anche dopo mesi senza sentirsi né vedersi ma con la certezza di ritrovarsi quando necessario. Capirsi senza parlare. Chiedere l'uno all'altro reciproche approvazioni su femmine che frequentiamo anche solo un po' più assiduamente di altre...

F si muove soltanto nell'area del mito che gli sale dal coccige o gli scende attraverso la fontanella dei capelli, quel punto che gli ortodossi di tutte le religioni coprono con lo zucchetto. Non può perciò argomentare né sottoporsi a critica ma afferma o nega e tutto ciò che dice ha valore di sacro, ne deriva e vi è confinato. È la parola fondante e a cavallo degli aforismi scavalca bellamente l'ostacolo cartesiano. Categorico e logorroico oppure assolutamente silenzioso e ammiccante, come se parlare ostacolasse la comprensione.

Da quando Daniel si è nascosto e ha smesso di dar tracce di strategia, F non ha smesso di forsennare la strada anche riempiendo i muri di casa di fogli dipinti mentre io, nella più cupa e lunga delle depressioni, cercavo altre vie. Il cammino si contorce, si avviluppa su se stesso, s'arrampica per aspre nuove colline e s'affonda in gole senza uscita.

Dov'è l'insieme degli io che rappresento in questo sforzo verso ciò che la mia retorica onesta chiama il mio infinito? Come il don Giovanni di Frisch che poteva amarle tutte non amando che la geometria ovviamente euclidea, l'amore per le une e l'altra s'intreccia come un inviluppo compatto del quale non mi è facile isolare il capo. L'unica femmina che desidero è questo infinito che mi brucia freddo e che pare che insista a respingermi come un'amante passiva e reticente. Il mio corpo angelico... Ride il sarcasmo galileiano del gran balzo dell'impotente, sogno da bambini, che non riesce a possedere il banale che è vicino perché al volere manca possa, e si capofigge nell'impresa magica per avere ciò che è lontano e superiore... Ma sto, così sento e forte, portando all'esito un destino più antico e che solo ciò che chiamo pigrizia mollezza fatica del vivere in questo nuovo attuale universo mi svia da un perseguimento forte e conseguente. Genio della stirpe... ma qual è il modello adottato? della madre, del padre, debole-forte generoso-avaro aperto-chiuso leggero-pesante curva-retta, una semplificazione che supero oscillando, caso per caso, ora su un piede ora sull'altro a seconda di qual è l'io che sopravventa sull'altro...

A lungo sono stato e forse ancora sono e per quanto? professionista di diletto indifferente al risultato, capace di qualsiasi arte di buona qualità non possedendone nessuna per praticarle tutte senza impegno restio a desiderare una meta volendole tutte e così nessuna proprio da adolescente inquieto, arretrato rispetto al bambino caparbio di sé e del mondo che non ha ancora introiettato ai tempi suoi né dubbio né sospetto. Milarepa senza esserlo posto da altri sui binari e il treno va «dimmi chi sono e che vuoi e lo faccio» in dispregio o indifferenza di qualsiasi etica e progetto esistenziale visibile che fossero miei solo miei autenticamente miei... Così, amo e solo e sempre la mia geometria... «Intuizioni come pennellate ma fra gli accoglienti bracci di una comoda poltrona» Gottardo Rossi poeta imbroglione bagatto perfetto e perfetto divinatore aveva scritto sul foglio a quadretti grossi da scuola elementare nella sua stanzetta scagno all'ultimo piano di scale d'ardesia ondeggianti come il mare di fronte poco lontano a intossicarci i sogni con il suo odore di vuoto consumate da migliaia di consultanti nei secoli, come se avesse sempre avuto dimora qui nei caruggi dall'inizio dei tempi una mezza tenda di sporco scolorito a separare lo studio dal cesso così, tanto per la forma, quando A volle sapere da lui chi ero e che facevo e dove andavo «e che fa alle donne?». Profetizzò anche i due e soli incidenti che mi avrebbero franto le ossa come a indicare l'errore di andare dove e come non avrei dovuto...

* * *

Inesauribili tetti piatti mediterranei di palazzine pre e dopoguerra come fondali di un palcoscenico che sale fino alla cerchia dei monti. La mia parte di città è tutta qui distesa. Scacchiera di terrazze arredate di piante amache tavole per la ribotta di quando vince la squadra del cuore o sventolanti di panni stesi allineati a file di falange, all'infinito. Qui il costante misto di grida e di motociclette sale leggero e c'è spazio per il respiro del cielo a perdifiato e per un filo di vento da ponente. A oriente la massa scura dei cipressi e dei lecci, dove volentieri mi rintano, libro matita birra panino, a consumare il pranzo tra tombe e lapidi ottocentesche incise di poesie d'amore e di morte che raccontano di visi galvanici che fissano scoloriti eternamente il vuoto, occhi che hanno visto e corpi che hanno generato e consumato energia per poter poi riuscire finalmente marmorizzati in un epitaffio ermetico. Con indifferenza apotropaica nel reparto ebraico a volte cerco senza trovare quella tomba, della quale mi ostino a non voler chiedere l'ubicazione... Forse un giorno la legge sconosciuta del caso porterà precisa i miei passi sul luogo dell'appuntamento che tuttavia temo di consumare, come un sigillo finale a chiudere per sempre una vita perduta che alimento ancora.

Ho voluto tenacemente questa casa con il lungo balcone all'ultimo piano dove tento di riprodurre la macchia mediterranea di gerani e piante odorose immaginando inesistenti strati di salsedine sulle foglie scure. Il mare è troppo lontano, dietro una barriera inesauribile di costruzioni e poi campi e ancora case, per chilometri. Il vento non ne porta più nemmeno l'odore. Mi seggo in poltrona nel tardo pomeriggio in attesa del crepuscolo e della notte, lasciandomi lentamente scomparire insieme con gli oggetti nell'evanescenza di contorni masse colori. La luce che sale appena dalla città come carta oleata rende impossibile la scomparsa totale tra le cose per poter riuscire a non sapere più quando finisco io e cominciano loro e viceversa, così come permane la coscienza nonostante il nichilismo della meditazione, non abbastanza intensa o accurata. Nel buio relativo gli occhi vedono tutto e la continuità della materia non si realizza. Ma l'energia sì. Trascorro lentamente da cosa a cosa sentendo che con gli oggetti respiriamo insieme e la casa scricchiola insieme con i suoi mobili. La mente ha eliminato i rumori e ci osserviamo schizoidi, essi e io in silenzio, ciascuno dal proprio punto di vista. Osservato dagli oggetti. Osservare gli oggetti che mi osservano, oggetto tra gli oggetti in desiderio di non esistenza. Non è diverso da quando, nel bosco, mi immedesimo in un fiore una pianta un sasso percependo le loro percezioni. Ho appreso la tecnica da quella Carolina alla quale mi portava G, lei io e suo marito e qualche altro matematico o epistemologo abbastanza al di fuori della media o abbastanza innamorato di lei da seguirla nei suoi innamoramenti. Platee di adepti o di semplici curiosi che Carolina a uno a uno e tutti insieme pazientemente guidava fino all'immersione nell'io profondo que pero es el mismo, diceva in mistolingua, de la totalidad de el universo (analogamente Daniel insegnava a vedere il paesaggio con gli occhi dell'aquila o impaurirsi insieme con il battito del cuore del coniglio selvatico braccato). La chiave dell'emozione svia il flusso nei ricordi: G che faceva la marrana accendendomi intorno candeline di hanukkah, G che amava che la prendessi in mare sotto gli occhi ignari della folla dei bagnanti... G di un nuovocorso che non era diverso dai precedenti.

Un rumore esterno più forte e improvviso impone prima o poi la presenza chiassosa della città cancellata e spezza il filo del contatto ormai scaduto ad associazioni libere e torno a quest'altra realtà che il deviatore stupra poi alla fine del viaggio di luce piatta e violenta, sadicamente intenzionato a sottrarmi alle porte divine della percezione.

Così è con lei quando un atto una parola un gesto ci precipitano come una bomba da diecimila metri in una realtà fatta di nulla pulsioni accendimenti mormorii di ricordi che non sa dominare se non con il loro rifiuto e il rifiuto di me e mi ritrovo allora in questo medesimo soggiorno gli oggetti intorno chiusi su se stessi, alieni, come uno stupido che ancora una volta non c'era.

Brillerebbe pazza con te la notte
di felicità
e questo tempo che dura e ci separa.

Così lenta scorre
bava di stelle
a scrivere nella memoria i mille ieri
che non saranno domani e ci imprigionano
di spazi lontani.

Colmami divino fantasma
di baci il calice
ché possa bere te
insieme con il nostro vino.
E prestami l'anca e i glutei e i seni
ché possano
ebbre
le labbra...

Quel tempo è svanito. Non più il samurai che la difende ma il nemico da annientare e dimenticare con struggimento.

Non dirai una parola
non mi vedrai incontrandomi
sarai come una nube
trasparente
sulla quale non avrò appigli.

Non mi cercherai al tuo ritorno
perduto in un diedro di nulla
e sarà ancora una volta
e una di più
la colpa non detta dei nostri destini.

E ti tengo e ti scivolo
intorno e sopra
nube di carezze vane a creare
insieme
l'ultimo giorno del mondo che non verrà.

* * *

Il ritorno di A è calato come un fendente di piombo compatto impenetrabile e alieno che s'inframezza nei solchi disordinati della mia aratura. Con gli anni ho imparato a sfuggire, in parte e con scelte dolorose e contraddittorie, al suo vampirismo dei sentimenti.

Il grande albergo riversava sulla luce violenta della passeggiata a mare la sua fauna in eleganza d'occasione dei primi anni sessanta, uomini in blazer o gessato di mattina, donne in inevitabili chanel o azzardi di abito da cocktail al pranzo di matrimonio, ma più spesso finanziere-della-domenica e gonne scampanate sotto blusette di seta. Il sole di mezza stagione è caldo e la brezza marina arriccia le narici al profumo dei pini salsi e dello iodio. La buona borghesia dei nostri parenti e noi, cugini tredicenni fino ad allora sconosciuti e curiosi al primo incontro. Poi le prime educazioni sentimentali con il brivido della sfida a un quasi incesto che lasciava perplesse le famiglie e noi avanti a sperimentare i nostri corpi e le regole non scritte del comportamento insieme con quelle, interiori, di come ci si sente a essere in due.

I bianco e nero dell'infanzia mi ritraggono esile e stupito del mondo, gli occhi dolci dal taglio di gazzella. Ero dentro quell'involucro che mi guarda assente gli occhi al vuoto al di là della foto con pena forse e con fiducia, bloccato in una crescita che non avverrà mai oltre l'immagine che mi osserva finché non svanirà il supporto e le infinite gamme dei grigi scivoleranno in una poltiglia indistinta un po' seppia e un po' verdastra. Altre immagini di istanti che ho di fronte e sequenze di pellicola che non posso vedere se non nel ricordo. Trascino la corda di Pinocchio in bicicletta e il legno continua a cascare agitando le ginocchia snodate incollate ai pedali freddo nella luce invernale che taglia le ombre nette di trapezi e losanghe sdraiate sulla pietra come dormissero e le rincorro a salvare ancora una volta l'ingranaggio abbattuto e l'asino Meo mi tiene in groppa afferrato alla criniera con terrore della bestia grande come una montagna finché il raglio liberatore ci fa ridere entrambi perché il gioco è nella sfida all'equilibrio tentato di morire, e l'animale è dolce e amico. Altri involucri come testimoni non sono io eppure sì. Odiata faccia da chierichetto adolescente che non ha mai appreso tempi e gesti della regola pubblica, una regola come un'altra, mescolata con quelle che mi davo io stesso immaginando che si facesse così. Scruto questi corpi sconosciuti che mi ritraggono cercando un varco nella massa carnosa e guardarmi negli occhi studiare il taglio delle labbra ma il me stesso del passato mi si drizza contro e alza un muro che non so penetrare. Con me l'intuizione non funziona. Troppe note signor Mozart, troppe note.

AL sorride di sottecchi incuriosita di me come padre nascosto, dall'alto dei suoi forse cinque anni nella casa di amiche dove l'ho portata, concessione all'esclusiva della sua compagnia, mentre le ragazze si appassionano agli occhi azzurri e ai transeunti riccioli biondi. Abbiamo favoleggiato a lungo per la città interpretando al contrario l'evidenza delle percezioni: cose, persone, tutto rovesciato dentro-fuori o sopra-sotto e prima-dopo in un gioco crudele che non risparmia niente e nessuno e le strappa esplosioni di entusiasmo del mondo alla rovescia. AL che opta per vivere con me dopo un breve e definitivo litigio con A ma rientrato quando le chiede di ritornare per consolare la sua solitudine e la perdita di scopo, che costringo a dormire da sola perché temo con angoscia la perdizione del padre e della figlia nel medesimo letto... Questa figlia che non ho vissuto nei primi giorni e mesi e anni e con la quale non era stato possibile condividere alla pari i primi passi alla scoperta di noi e del mondo, questa figlia creata come servizio per egoismo sacro di chi si voleva completa quando la malattia cominciava a tracciare i segni irreparabili e avvicinava al bilancio finale, nata per intercessione di una riservata preghiera fuori dal mondo sulla tomba aragonese dello zio nel sacrario dei volontari fascisti della guerra civile...

Raccolgo A dalla commercialista in una via demi-chic appena fuori centro. Al telefono ho dato istruzioni per cinque gocce di Rivotril da prendere súbito. Esce dal portone stralunata con la sua Korsakov aggrappata al groppone da scimmia dei drogati incubo perenne in evidente stato confusionale riconoscendomi appena, sulla spalla la borsa a maglia di lana stracolma di carte imbustate in plastica trasparente, cose delle tasse e cartelle cliniche di sicurezza casomai dovesse prelevarla un’ambulanza, la solita maglietta verde a mezze maniche con l'eterno piccolo strappo davanti e i soliti pantaloni di tela neri dalle tasche rigonfie. Il vento gelido non la turba. Si lascia condurre docilmente sotto la pioggia alla macchina poco lontana, che guarda assente, iride chiara solo un po' più venata di grigio. Mi chiede dov'è e perché e dove stiamo andando. Per strada mi fermo presso un bar ed esco, chiudendola in macchina, per farmi dare un bicchiere di plastica con acqua, nel quale stillo altre gocce mentre dolce la voce cerco di darle tranquillità. Pesco nelle sue tasche il foglietto sul quale segna le posologie assunte nella giornata e aggiorno l'elenco. A casa la faccio sedere sul letto e insieme attendiamo l'effetto, debolmente rischiarati dalla luce della città appena corretta da un abat-jour nella stanza accanto.

La casa vive il disordine dell'eccesso, che le ombre montano a tumuli sciti dentro i quali bisogna scavare per trovare, forse, il libro o l'oggetto cercato. Altri oggetti e cumuli di vecchi abiti del ricordo ossessivo e morboso dei genitori, riempiono ogni spazio piano disponibile di armadi letti sedie. Ante cassetti e raccoglitori conservano, riordinate invano e traboccanti, le carte dell'archivio domestico. La memoria, che possiede in forma labile e saltuaria, è ancor più compromessa dal caos del quale si circonda e che l'avvolge confortevole bozzolo. Non ama la casa della quale, cocciutamente fiera della sua solitudine orgogliosa e per imporre il peso della sua esistenza non potendo donarne la leggerezza, si sente prigioniera e minacciata se un ipotetico svenimento e caduta violenta la nascondesse ore e forse giorni sanguinante senza soccorso - la sola sicurezza è perciò vivere in strada, bag lady in sosta sulle panchine delle piazze ed ebrea errante per la città confidando nel coinvolgimento della folla nel caso di un colpo improvviso, che non sa più presentire, non potendo così porsi al riparo. Nei momenti di risparmio dalla malattia effetto del coma per l'incidente che a me ha solo spaccato un ginocchio, ritrova grinta ed entusiasmo dei tempi migliori, compreso il pessimo carattere troppo reattivo e il calvinismo assolutista da  botolo ringhioso, quando percorrevamo entusiasti in solitaria le oasi tunisine assediate dal deserto, le immondizie bengalesi che ci guardavano dall'alto della loro cultura millenaria, i templi nepalesi contorti d'erotismo o i gatt affollati di cadaveri in calcinazione lenta, la passeggiata nel bosco in compagnia del giovane lebbroso. Allora sa disegnare forme sognanti dai colori caleidoscopici, costruire architetture progettuali di parole e trame improbabili come un Sant'Elia della letteratura, scritte in una calligrafia di suo genio gotica e barocca insieme, perfettamente illeggibile.

Cerco, mentre la veglio brevemente addormentata, le ragioni della nostra complicità, del sodalizio che ci ha unito a lungo, insieme con l'insofferenza e il senso di costrizione che mi ha spinto al conflitto ai limiti della brutalità e del sadismo, fino a una parziale liberazione, timida e contraddittoria mentre, fuggendo, mi legavo con un vincolo ancora più stretto. Cerco le ragioni del mio essere come i motivi e gli scopi che ho utilizzato per costruirmi come sono, per dar corso al mio progetto vitale. Ragione: calcolo, peso degli opposti, esame e quindi giudizio. Dolore: della scoperta del vero essere che non coincide con l'immagine sempre positiva di sé. Orrore di sé. Torna insistente la domanda di sempre: chi sono? dove sono? che facilmente scivola in fuga verso l'inutile e irrinunciabile filosofia: chi è io?

Assorbo il planare della coscienza alla ricerca di un appiglio, di un punto saldo sul quale e dal quale costruire una immagine capace di gettare luce su un presente nebbioso. A lungo procedere inerte come un volano senza attrito, spendendo senza ritegno i capitali accumulati nelle premesse mai discusse, come se il dogma dell'auto-evidenza dell'esistenza di sé bastasse a giustificare azioni e pensieri che invece aggiungono materia alla materia e si pongono responsabili delle conseguenze non volute. Una chiamata di disimpegno vorace di possesso senza sottomissione alle trasformazioni indotte dall'azione. Il malleabile dei bianco e nero ha saputo porsi a boia ma non a giudice con lo sguardo dell'innocenza più pura e a trasecolare quando sottoposto a giudizio... Che cosa è più diabolico? E perché questo amore mi impone una resa dei conti che ho evitato accuratamente anche con P? C'è una molla nascosta da qualche parte o un grilletto segreto ha azionato un meccanismo sconosciuto che non so governare e del quale non so prevedere le conseguenze... Mi avvolgo e mi svolgo e non so se questa spirale si allarghi o si restringa, si apra o si chiuda.

Si riprende. Sta meglio. L'espressione è cosciente di sé e la voce è ferma, anche se non ricorda nulla e si stupisce di vedermi presso il letto. Amicizia, affetto, complicità. Esco poi nella pioggia fine. Le automobili sprazzano bagliori che si riflettono sull'asfalto bagnato. Alzo lo sguardo verso la città, invisibile al buio che non raggiungono i lampioni. Una pianura di tetti sovrasta incognita e indifferente, come una certezza ipotizzata non dimostrabile a contingentia mundi, sotto la quale si contorce il flusso della vita meccanica intorno ai propri fini. Chi sono? Dove vanno? Aspiro a lungo il fumo del toscano appena acceso le cui spire sottili mi avvolgono di un aroma consolante e mi tuffo nella massa che fluisce ordinata e costante. Ora sono anch'io parte anonima del flusso, aggiungo la mia unità a quelle che totalizzano il pulsare della città mentre un grido senza suono mi esce dal petto della mente a protestare la mia esistenza, la mia individuale discordia ed eccezionalità nei confronti dell'ordine degenere figliato dal buco nero del caos...
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 Faitez de la musique... L'invito di Daniel torna perentorio mentre mi insidio a fatica nella tuta grigia da danza volutamente troppo stretta e impacco l'inguine per suggerire mostruosità asinine con C che mi cuce alle natiche una coda nera di tela ritorta con anima ferrosa, che stia su imbizzarrita. Sono l'eroe della festa dei folli, l'asino vescovo panciuto, il viso mascherato da una cartapesta rossa con fattezze d'asino, mantello rosso e oro, sulla spalla la lunga tromba marina  che mi ha già visto pellegrino sui canti del saggio Alfonso e di Vogelweide e che è il mio orgoglio di liuteria, a far pernacchie con l'archetto. AL si rotolerà dalle risate e A dirà che questo sì che è un uomo... Mi sono aggregato d'istinto quando C ha annunciato lo studio del violino. Per un pugno d'anni la scuola popolare ci ha visto circospetti ed esaltati nelle asperità del nuovo universo anche se la noia gratuita del solfeggio cantato aveva fatto preferire a me ragazzo altri giochi tanto da restare per sempre deficiente d'impostazione ritmica e, in più, i quattro diti non sono mai stati abbastanza veloci e la voce e l'orecchio riottosi all'intonazione... L'organologia è un travolgimento passionale insinuata dal folletto Stefano e pomeriggi e sere ci vedono nella vecchia sede di una loggia massonica trasformata in laboratorio a imparare da Massimo a muovere le mani secondo l'intenzione della mente e a sentire sotto le nocche la sonorità di un ciocco. Rilevare le proporzioni da stampe di Mersenne e Praetorius e adattarle alla sezione aurea su compensato di nessuna qualità oltre a inventare forme improbabili ma funzionali di ponticello asimmetrico, traforare rosette copiate da cattedrali e sfiorare col dito gli armonici naturali stonati delle corde... «Finalmente un bel suono di tromba marina!» scherza il folletto Stefano. E riparare arpe neoclassiche fino alla nausea e inventare hummel o langeleik scandinavi come dulcimeri o spinette dei Vosgi, ingombri silenziosi di tavoli ingombri ciascuno precipitato in un oggetto che prolungava l'amore di sé per regalare ancora più musica al mondo...

L'immaginazione vergognosa inventava su di me inesistenti occhi critici di P che non percepiva o non interessata agli errori nelle scale e al non sapermi esibire per lei nelle prodezze dell'arco e della diteggiatura. Non mi sono più esibito né esercitato nemmeno in segreto. Né più ho disegnato le mie sculture... La  difesa del mio io riversata in paranoia di me e del mondo.
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Il verde smeraldo sovrasta quello più cupo della faccia inferiore delle foglie dei cerri e delle betulle nel destino comune della convivenza. Sotto, esistenze minute si dispongono a condividere e consumare briciole della luce disponibile in quantità finita come la materialità dello spirito, variando i verdi nei toni più cupi di pungitopi corbezzoli allori agrifogli e rose canine nel vago persistente sentore sulfureo che profuma l'aria. Il bosco è deserto di vita animale in questo pomeriggio inoltrato. Sono a digiuno dalla sera e il leggero crampo dello stomaco mi dispone al nulla della mente, non senza una leggera ebbrezza da vuoto. Trovo una piccola radura appartata che sarebbe piaciuta a un architetto dei giardini e mi accoccolo presso il tronco di una quercia. La lunga camminata a digiuno mi chiede diversi minuti prima di riuscire a regolarizzare il respiro in un flusso minimo restando assolutamente immobile fino all'evanescenza della mia persona. Ora sono solo un individuo, neutro e vitale come l'albero che vede il mio dorso. Rassicurata dalla mia inesistenza, la vita animale comincia a rivelarsi: una libellula mi frulla veloce all'altezza del capo e ai miei piedi percepisco la corsa di fiumi di formiche e il vagare di insetti sconosciuti. Un fruscio nel sottobosco alla mia destra non m'induce a voltare il capo per mantenere una immobilità che comincio a sentire dolorosa. Indovino che sia un giovane tasso che riconosco, per averlo visto a suo tempo nelle illustrazioni del libro di Scienze, dalle strisce bianche e nere sul muso allungato e che mi si aggira intorno il muso a terra a cercare chissà che, sfidando la luce del giorno che muore. Ora è immobile davanti a me, forse stupito di questa nuova e inusuale forma arborea  e ci scambiamo un breve sguardo negli occhi inespressivi. Mi impongo il più possibile di non pensare, anche se questa imposizione è già un pensiero... Devo comunque averlo rassicurato perché non mi dà più attenzione e la sua inesperta gioventù lo rimette alla cerca zigzagando finché scompare da dove era venuto. Lo stormire lento delle fronde crea un'onda lunga che s'arrotola nel più assoluto silenzio. Più lontano saltella un passero. Mi sento pronto. Scelgo una margherita davanti a me, un po' più isolata dalla colonia delle altre e cautamente penetro in essa. Non so spiegarmi il processo ma all'improvviso siamo agganciati sì che per la mia mente siamo una cosa sola. La rivelazione mi inchioda per sempre e vive ancora come l'istante più alto della mia vita. Ho provato solo un'altra volta, cercando di passare attraverso la porta della morte scolpita sulla parete tufacea di una tomba etrusca. Per fortuna, mi accora la strega con la quale ne ho parlato e che ipotizza una protezione che mi garantirebbe non so che cosa, un provvido cannoneggiare di artiglieria da un maledetto poligono militare poco lontano disturba il processo e il contatto non accade, consentendomi di restare felicemente al di qua...

La margherita... il nome segreto di mia madre... Sono all'interno e anzi sono essa stessa. Sotto di me, una massa oscura e fredda senza fine mi tiene in stretto costante contatto attraverso le radici con  il mondo vegetale del pianeta. Immobile e stupefatto, incapace di capire pur comprendendo. Non odo un ronzio ma un bisbiglio mentale di una massa incalcolabile di impossibili voci in continua comunicazione... Daniel ci spiegherà che era così che i cercatori trovavano le prime miniere, avanti di statisticizzare l'osservazione dei colori e delle forme delle piante sovrastanti il luogo dove i metalli portano a compimento la lenta evoluzione vitale nell'oscuro nido della Terra... Mi perdo nel contatto per non so quanto tempo galleggiando da qualche parte come quando, a letto la notte, certe posizioni assunte volutamente mi consentono di fluttuare nella stanza contemplando dall'esterno il mio corpo addormentato. Due occhi sottili mi spiano da poco lontano e definitivamente sono di nuovo solo in me, quello di prima e di sempre. La visione del bosco, solo un poco meno chiara per il vicino crepuscolo, è rassicurante e le emozioni, finora trattenute da qualche parte, mi riempiono a valanga accelerando il respiro come a voler aumentare la capacità polmonare di fronte a una tale massa che preme per entrare. Ci guardiamo un istante lui e io, ciò che poi immaginerò essere stato una serpe di Esculapio in osservazione. Avrò ingannato il tasso, penso, ma non il serpente che, malfidato come un ligure, chissà da quanto spiava le mie acrobazie. Un battere delle palpebre affaticate e l'esculapio non c'è più.

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Il fumo del sigaro
nuvola in cielo
dentro la primavera.


Portava con leggerezza un gran naso e fumava pipa e toscani, il più vicino e amato della mia infanzia non favola di fonti. Sgambettavo giù ridendo per i vicoli verso il mare stretto nella mano gigante a fare inventario di conchiglie lasciate dalla piccola marea di primavera, noctiluche suicidate sulla battigia, svelare in nodi di tronchi relitti forme di sogno come sanno fare le nuvole e scricchiolare i passi sulle alghe secche o catalogare i colori infiniti della sabbia. Confidavo le avventure e i miti dei miei amici segreti che mai mio padre...  Armistinprova che nuotava sotto l'isola e riaffiorava dall'altra parte, Capitan Aldeccio che con la ciurma di Bibarco Barcapécicio Barcociuccio combatteva i pirati sulla tovaglietta del tavolino del tinello di quella gran casa enorme nella città vecchia tutta un labirinto e stanze a dislivello che bisognava sempre star lì a salire e scendere due o tre gradini dove i ghirigori del ricamo erano profili di costa anfratti promontori dietro i quali si nascondevano i manigoldi e saltavano fuori quando meno te lo aspetti per mettere a ferro e fuoco le popolazioni indifese. L'imbeccata del ripasso docile delle tabelline percorreva tutta la strada da casa a scuola. Di prima estate già poco più grande sul dinghy dietro il porto tra gli scogli a gettare la retina marrone per cogliere zin rossi pieni quando è luna piena da aprire a piccoli colpi con la lama del coltello leggeri sul palmo gli aculei per non ferirsi ché «le spine sono velenose e non te le togli più» e spremerci su una goccia di limone e sorbire con il cucchiaino. Si tornava al tramonto issata la vela ti vedo e non ti vedo il sole negli occhi. Un pomeriggio mi volto e non c'è più, lasciato con l'inganno sulla spiaggia a giocare con bambini che forse conoscevo o forse no, preso in consegna dalla provvida Annamaria un anno più grande, figlia grassa del calzolaio peloso, per fare i muretti della pista per le biglie «falli tu che li fai bene» e che ne sa lei, penso, che non mi ha mai visto fare i muretti né li ho mai fatti perché non ho mai giocato con nessuno di visibile prima d'ora... il mio primo contatto con il mondo esterno fuori di casa portato da lui a conoscere il prossimo inutile perché mi bastava quello dell'immaginazione.

La Radiomarelli la sera docile ai suoi comandi di officiante alimentava in etere e in disco me e le donne di casa dei melodrammi seguiti sul libretto (ma «alla musica bastano le vocali») per chi voleva sgamare gli scostamenti del canto o rendersi conto degli intrighi. Ero nato troppo tardi per aver potuto morire di gioia e di dolore nel primo cinema del paese, invenzione da pioniere, con le compagnie d'opera che sovente il suo talento di impresario vendeva allo spirito acciugoso dei pescatori ormai più volentieri bagnini.

«E Tíngolo camminava sulle mani anche per trenta metri e suonava il mandolino come pochi con lui alla chitarra nel negozio a luci spente uscendo poi a mezzanotte a far le serenate e i carabinieri dietro. E scendeva per la collina di gran carriera con il biroccio che portava il pane, un piede sul freno per star sicuri una redine per mano e giù a travolgere come un diavolo i contadini che si buttavano nei campi chi di qua chi di là oppure saltava addosso ai ciclisti, un vizio questo - chissà che cosa pensano i cavalli ché anche Girardengo si è salvato a stento «si schivi! si schivi!» e vinceva la gara con il treno. E Rosalia? la cavallina di quand'era soldato correva anche di più ma non sopportava la mantella che sfregava il didietro e saltava come una matta e lui ci ballava insieme e tutti ridevano ma che bello andare a cavallo oh che bello sapessi! E da caporale furiere per salvare dalla trincea facendo passare per cuoco del Grand Hôtel alla mensa dei sottufficiali il facchino della stazione che seguiva le istruzioni e com'era diventato bravo! e ne ho salvati tanti! anche a scrivere biglietti falsi che avevano la febbre come fossi il dottore ché tanto scrivono male e non si capisce niente e nessuno veniva su a controllare... E come filava il Mar anche di bolina ché aveva fatto fare le vele randa e fiocco ad Arcachon che gli aveva mandato le misure della barca e poi vinceva tutte le regate! E quella volta...».
Di suo, panettiere ma anche ogni mestiere perché «bisogna saper fare tutto nella vita ché non si può mai sapere». Apprendevo, inseguendo docile l'aquilone del suo entusiasmo gentile e innamorati insieme delle avventure dei molti D'Artagnan Sandokan Tomsoier  il capitano Nemo e Franti-Garrone con quelli della via Pál e l'agognata Alice ricca di misteri... o bocca aperta alle sedute spiritiche che radunavano gente in casa ben prima della televisione, trovare cose e persone perdute nella guerra finché il parroco propose il suo veto. Il gran libro delle ricette scritto a biro blu e titoli e ingredienti in rosso calligrafia puntuta inclinata antica di quando si usava il pennino corsivo italico qualche errore «ho fatto fino alla sesta» ma con indici e apparati da professore su quaderni a righe rilegati a volume dal tipografo... Usciva in bicicletta a ceste legate avanti e dietro a scegliere di prima mattina al mercato il menu del giorno e tornava a piedi spingendola a mano stracarica tanto da minacciare l'equilibrio e tanto gli batteva a condurla così il pedale sulla tibia che strofinava poi con acqua e olio di sansa e oliva, una gamba che imitava le carte geografiche. Mamma e nonna agli ordini assoluti per la preparazione del desinare perché «in cucina la democrazia non vale», eppure ingenuo e mite, dimessosi dal partito quando gli stoccafissi rubati in Comune gridavano vendetta all'onestà del buon fascista. Una sorellastra raramente veduta bellissima da diva del muto minuta elegante frusciante orecchini di perla e una lunga collana un filo di Chanel occhi neri da peccato ma allora non lo sapevo gran signora e gran cuoca di una gran signora sulla riviera delle palme e le donne di qui che mi circondavano erano madri e nonne e zie grasse vestite da contadine scipite nonostante l'aria di mare. Guardavo la gran donna e immaginavo così la mia Alice giù nel pozzo ma con che stile e attraverso lo specchio che dei due era quello che mi piaceva di più perché quel Bianconiglio, mah! La domenica insieme alla partita ma di calcio non ne capiva molto non sapeva le regole sua passione era la palla a pugno che forse avrà giocato da giovane perché da noi non c'era. E so fare le iniezioni con la delicatezza che mi ha insegnato polso sicuro e leggero e strofinare molto e prima e dopo per l'assorbimento e dare il falso scopo pizzicando la pelle vicino e poi parlare per distrarre il paziente che nemmeno si accorge che l'ago è entrato e chiede ma quando me la fai? e tu hai già finito. E mi ha costruito una panchetta di legno sulla quale accoccolarmi per andare di corpo invece di sedermi sulla tazza ché odiava quei nuovi gabinetti all'inglese che rendono stitici e non ti lasciano controllare quello che hai fatto che dopotutto è roba tua mica di qualcun altro e devi sempre sapere come sei ché si capisce molto a vedere com'è venuta. Una gran ciotola di colazione al mattino d'uovo sbattuto con lo zucchero e il bianco montato ben duro a neve e latte e caffè e dentro una gran cucchiaiata di fiori di zolfo che non ho poi mai avuto i brufoli della giovinezza ma la pelle liscia che neanche Alice. E dopo i cómpiti esercizi di calligrafia sui modelli perché «scrivere è fare un disegno e il disegno è come la scrittura che puoi dire quello che vuoi e tutti ti capiscono anche senza le parole». Affettava il salame tirando fuori una mezza linguetta rossa che andava su e giù fra le labbra seguendo l'avanti e indietro del coltello o anche a tritare la cipolla veloce come una mitraglia che dopotutto «è sempre questione di polso» e non si è mai ferito un dito.

E il polso leggero l'ho sempre avuto, nonno, e fermo e senza tremare che quando da militare tiravo con la 22 vincevo tutte le gare e ho ancora le medaglie guadagnate e ho sempre disegnato, nonno, e letto molto e visto tutti i film come volevi e impazzisco per la lirica perché «le cose cantate vengono meglio» e so cucinare e sentire prima nel palato i sapori che voglio ottenere «ché un cuoco non è mica un tonno e le cose si deve farle bene» e trito anch'io a mitraglia senza ferirmi...

Nonno, perché non eri mio padre?

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Megane, 2007, di Ogigami Naoko - Sull'isola non c'è assolutamente niente da vedere, sostengono. L'unica cosa da fare è il twilighting, senza dire di che cosa veramente si tratti e, la mattina, eseguire sulla spiaggia esercizi di ritmica guidati da una donna della quale non si sa e che torna ogni primavera a preparare la grattachecca giapponese nel casotto sulla spiaggia, azionando una gran macchina a manovella. Ci vuole del talento per essere qui, dice l'albergatore. Quale talento? chiede Taeko sospettosa. Quello di essere qui.


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Diavoletto di Cartesio che sale e che scende in dipendenza dalla pressione.

Quali mode e quali tradizioni mi si sono accapigliate come serpenti di medusa per consolidare una struttura di potere stabile in attesa che un accidente emergente o un lento affiorare di pulsioni salissero come magma a distruggere e ricreare? Disordine nato dal caos. L'uomo marginale che sono sta ancora appollaiato come un nibbio predatore per tuffarsi sulle aree di minore resistenza. Catalizzatore di trasformazioni più lente e più antiche, questo amore ha forse accelerato inaspettato il ribollire browniano e infine scoperchiato il calderone del mescolare e trasumanare incessante delle cose.

Chi è figlio di chi? L'uovo e la gallina dell'amore o delle trasformazioni? Noi due, forse, ergastolani con un progetto di evasione a lungo accarezzato ma umido del terrore di una possibile libertà che non avremmo saputo governare con l'orgogliosa sicurezza di sempre, ci siamo riconosciuti amanti e fratelli nell'identità di un comune progetto di fuga...  Quale priorità fra l'incontro delle anime e dei corpi e la fuga da una prigione nella quale stavamo soffocando? Quali sono le chiavi dei lucchetti che ci imprigionano e quali le password che aprono i file riservati? Nessuna risposta può essere razionale - la risposta è nel terremoto improvviso che ha rivelato, a entrambi? la possibilità di un biglietto di sola andata per una destinazione sconosciuta. E ancora: amore o bisogno di essere innamorati? E resteremmo insieme dopo l'ipotetica fuga compiuta in comune? Ma vuole lei questa liberazione?

Appunti di arte della guerra. Questa genetica mi si suscita nel nucleo e all'intorno nella strategia, doppia, dell'abbandono di una posizione forse indifendibile per concentrare le milizie sulla resistenza minore...  ma se perdo me non troverò mai lei che è la sola che immediatamente voglio e della quale ho bisogno assoluto... Muore l'amore poco alimentato e svanisce l'amante che non riconosce l'alimento somministrato. Quale sofferenza  e quale felicità valgono la pena - dell'amore o della trasformazione? Sarebbero possibili entrambe - ma lei non dice progetti che costruisce il suo cuore mentre beviamo il calice. E quale considerazione delle sue sofferenze accetta il mio souvenir d'egotisme?

Anche la statica della città che mi si è costruita intorno preme per il rispetto della geologia e delle regole naturali della gemmazione e della comunicazione che la sostengono affinché le ziggurat conservino la possibilità di nominare dinastie e opere che ne fondano l'orizzonte insieme con la rete delle connessioni.

Cartografo dell'anima, bella immagine, ho bisogno di disegnare una nuova mappa disperata. Percorro le mie strade nell'inventario delle divisioni interne e nuove storie mi sorgono, intrecciano e  sovrappongono a dividere e a collegare il commercio di frammenti di vita e di conoscenza suscitati da questo amore, o forse stati d'animo di pietra e cemento che mi governano da sempre i conflitti e attraggono le mie cooperazioni e i miei scontri con la cadenza e la successione dei luoghi degli spazi dei movimenti del flusso sanguigno dei suoi abitanti...

Mi muovo dentro la città come dentro me stesso e spazi mi si ripartiscono l'esistenza qui e ora in questa città che è stata da súbito mia in una doppia agnizione. Luoghi e simboli, aree luminose e anditi oscuri della muffa che sale salnitra dalle profondità del tempo, scorci di tetti e decori di un'architettura che era sempre più interiore a mano a mano che la percorrevo.

Il sogno del luogo perfetto è surrogato a una centralità che si aggrappa a logistiche esteriori. Questa collina agognata, collina garbata già fuori mano, aria di paese dedaleo sognante, tavole dispettose di Rubino da dove Viperetta e Quadratino occhieggiano tra un comignolo araldico e un frontone spezzato, una scala segmentata sull'infinito tra un fosso e una via che si perde nella campagna e gli orti nei giardini, che solo le superfetazioni abitative hanno gradatamente avvicinato a un centro monumentale dove pesanti leggerezze insinuano un timor dei che annichilisce. Anche questo è la città che mi irretisce indifferentemente come una femmina sguaiata o una vergine che profuma di rosa. Altra collina, altro rione, quello che ora lei ingentilisce, che invano avevo sondato attratto dalla luce che filtra tra le fronde della gran piazza culminale aperta verso basse bi-famigliari popolari di mattone britannico con assedio di vecchi al tavolo verde del cofano di un'automobile, tutta intorno gran parte della scomparsa campagna antica come un mito presente eppure lontano e dove sono più volte tornato a far da garzone di liuteria... Diversamente, il dove vivo mi si fa stretto intorno e cencioso a soffocare una finta bohème che sopravvive a se stessa e che non sento più mia come se lo sgretolarsi dei muri imbrattati e l'animalità che vi si diffonde arrogante nella sua insipienza canina rappresentasse la conclusione di un processo troppo lungo per essere ancora vitale. La vecchiaia cerca piazze assolate e ordinate di ville e giardini d'acacie profumate come se la pulizia delle strade inducesse un ordine interiore che diminuisce la complessità e accresce la semplificazione dei conflitti. O l'altro mito, mai conquistato che lei fa intravvedere un istante nella lanterna magica come una possibilità di perfezione e appagamento, ma quanto lontana? dello zappare etico dell'orto su una fascia a strapiombo di schiocchi di merli e frusci di serpi...

Questi luoghi comuni della città sono tessere di un mosaico che non posso completare se non immedesimandomi nell'urbanista di me stesso ma non di vite che non mi appartengono e sulle quali non ho diritto di dominio. Per brevi periodi la forza gravitazionale ha attorniato oggetti umani alla mia persona, allo spettacolo che so prestare di me, affascinati da un piacere intossicante ma ben costruito... Questa schizofrenia di me a me stesso e dei miei luoghi è il sogno di un essere che percepisce il proprio centro come un'asintote maledetta da non raggiungere che all'infinito... Girovago e ambulante della mia toponomastica, dov'è il centro della città?

* * *

La indovino e súbito da lontano, un po' intuizione e un po' empatia e forse un po' memoria di un essere a lungo mitizzato che ho necessariamente bloccato nel tempo in immagini in posa come vecchie fotografie, oltre il semaforo che regola l'incrocio multiplo e soleggiato nonostante i parallelepipedi giganti di periferia che lo assediano come un pozzo abitato. Non so se l'avrei riconosciuta al di fuori dell'appuntamento, il volto più allungato segnato da profonde rughe e qualche tumore cutaneo, lunghi capelli cangianti color topo. Saliamo in macchina e a lungo cerchiamo un parcheggio acconcio inerpicati per una creusa che mantiene aria di paese, poco asfalto e poi mulattiera di mattoni e bassi scalini in pietra. E ci attende sul pianerottolo, minuta forse anoressica un anno più vecchia di AL ma con l'apparenza di esserne più giovane di un buon lustro, capelli cortissimi e apparentemente neri con una treccina rasta del colore opaco della stoppa che scende da un lato. Immediata sintonia con una genialità naturale che preme entusiasta gli orifizi del corpo contratto a farne brillare la forza vitale. Mi chiamano con il vecchio nomignolo che non mi è mai piaciuto e che non posso rifiutare e del quale non m'importa. Horror vacui della casa, stratificata da cielo a terra di libri dischi manga conchiglie oggetti di qualche ricordo e ingombra al suolo di tutto quanto non stia in verticale.  Marinella c'è tutta nel presente e nella memoria dei tratti dei gesti dell'intonazione dello strascicare musicale di qualche vocale più larga di uno stile tutto scivolato intorno alle cose non dette e di una essenza amata che mi avevano affondato nel primo maelström di passaggio della mia vita e che, come poi sarà la norma dopo questa prova generale, avevo alla fine risolto con il solito guizzo decisionista mentre restavo imprigionato sul fondo credendo di galleggiare.

    Vedo la vita scavare a lungo dal di dentro e duramente le due donne mentre sorseggio quasi tutto da solo un Pinot grigio tenuto a raffreddare per me sul balcone esposto a settentrione e conversiamo nel fumo delle Gauloises che non sono più quelle di una volta ma come se l'ultimo incontro fosse stato non più tardi dell'altro ieri, accoccolati sui medesimi cuscini a parlare del presente o del passato più prossimo di persone e di azioni che potrebbero anche non esistere, o mai esistite o forse sì, solo a volerlo. In disparte, s'incrina per un soffio la sua voce dicendo appena della figlia. Comprendo e non chiedo non riuscendo nemmeno noi e qui a cacciare dal balcone l'ottuso pudore dei liguri, altra forma di maelström che si aggira eternamente in tondo lasciando intoccata l'essenza non detta nel vuoto profondo del gorgo. Parla di sé della medicina della specializzazione in psicologia clinica e del marito morto da non molto che aveva fatto in tempo, imbecille come sempre l'avevo considerato - e che pure aveva sposato - a regalare alla famiglia anche un figlio naturale, mezzo fratellino Matteo della candida E e che non c'è, vive con la madre. Le parole si arrampicano leggere sulle cose accolte sugli scaffali stracolmi o scivolano sui mosaici del pavimento veneziano urtando poltrone e divano e riscattano indietro o deviate con il ping del flipper al quale giochiamo la nostra gioiosa partita, innammorati dell'incontro che ci siamo regalati dopo quarant'anni di silenzio come un tempo e uno solo passato nell'orto di casa sua un pomeriggio d'estate - unico ricordo che ho mantenuto intatto tra qualche lampo ieratico di frammento di memoria.

Pranziamo con gusto e ridendo grossièrs come all'osteria compressi nella cucina da bambola verdure infornate riuscite bollite e un gran pesce incartocciato in alluminio assolutamente insapore che nemmeno il mediocre eppur Brunello che solo io tracanno riesce a resuscitare. Pomeriggio di sogno e chiacchiere a non finire sigillato infine dal primo leggero breve bacio della nostra vita che viaggia in un caleidoscopio.

A lei, che attende nervosa e gelosa l'esito dell'incontro inframezzato da una telefonata di scherzo con le amiche di mediazione, regalo l'invio di un paio di immagini di tranquillità e sento la colpa del gesto mentre lo sto compiendo.

«Un pomeriggio, poche ore, di feedback emozionale, cortocircuito temporale, come in un sogno in cui il dimenticato rivive al presente, frammenti sconnessi ricomposti in un quadro armonioso. Ho temuto molto questo incontro, temuto di essermi talmente stravolta e persa nei maelström della mia vita, da essere divenuta non più riconoscibile: da me stessa mi scavo e mi rivolto, come zolla indurita, per trovare tracce della forza e dello spirito che ancora ricordo di aver avuto ma che spesso, sempre più spesso, sento perso. E poi il tuo abbraccio accogliente, un groppo che di colpo si scioglie, vedermi nei tuoi sguardi, attraverso le tue parole, che ancora qui mi confermi  ancora viva, ancora rintracciabile nelle mie coordinate fondamentali. Sguardi e parole che saranno il mio salvagente di sopravvivenza nelle prossime ondate di sbattimento. Ho baciato a fior di labbra, per un istante pacificata, la me stessa che tu mi hai restituito e l'uomo che mi ha spruzzato di pulviscolo solare». 
Anche la candida E mi inorgoglisce grata di certe e rare complessità e sensibilità d'animo che avrebbe trovato in me...

* * *
Il cammino dei salici trascina in su per la collina aspra bagnata dalla pioggia del primo pomeriggio. Occhi nel sole che cala dietro un picco più appuntito a chiudere come un soldatino in postazione lo spazio, per poco, per un nuovo passo che sposta la luce cadente dietro un nuovo schermo. Salita lenta, i compagni attardati condividono parole scoppi di risa.

Lei non c'è, non è ancora entrata nella mia vita e salgo la piccola vetta verso un appuntamento stabilito ma non ancora consumato. Lei, amore mio driade bionda, si nasconde dietro un tronco le labbra serrate gli orecchi aguzzi a non emettere suoni rivelatori in attesa, al varco, ignaro, del mio passaggio. Mi volterò a cercarla e sarà dietro un altro ostacolo, ridendo fra sé dello scherzo, innocente. So che c'è ma che non mi si rivela. Più tardi, poco dopo, la compagnia percorrerà i miei passi. Allora lei salterà all'aperto e confonderà se stessa tra loro più lenti. E ancora mi volterò e rimarrà invisibile perché non sarà il momento perché il gruppo la nasconde e perché lei non si darà nel gruppo, mai.

Il gruppo si riunisce accanto alla fontana e alla pietra della vasca che la raccoglie. Mani nell'acqua che galleggia le foglie cadute, a raffreddare i polsi e giocare con piccole onde. Il suo volto è là nell'acqua mossa, non un terso specchio come la luna ma confusa nei cerchi dei nostri giochi.

Questa immagine e questo amore porto con me quando varcata la collina i piedi scendono cauti attenti al terreno più solido a restare in equilibrio fra il passo passato e quello futuro. Non l'ho incontrata ma so che è dentro di me da qualche parte finché non mi si rivelerà al tempo dell'inevitabile e tutta e nuda davanti alla sua verità che sarà anche mia. Questo incontro sempre rimandato... Frammenti di conoscenza assoluta con immagini parziali, derivate parziali, parziali approssimazioni, figure che sorgono frammenti nella nebbia e súbito svanite. Se ne sta nascosta un po' per non morire al varco di me stesso dietro un altro tronco sorridente le labbra serrate mentre oltrepasso il punto di un incontro che non c'è... Quanto tempo così!

Era nei miei giochi con i compagni inventati dalla solitudine della mia immaginazione. Era nei miei libri muti con me nella mia stanza silenziosa a scivolare pagine e parole una dopo l'altra, tra le note della melodia che mi esaltava di spazi infiniti e stelle cadenti nelle notti con il naso all'in su di mezza estate.  Tracciavo disegni ed era in ogni curva in un ombreggio felice nella composta geometria dello spazio che equilibravo di masse ardenti eppur composte in un senza tempo di morte. Nei miei giorni disperati, negli istanti di piccole felicità come edera d'oro inerpicata su cortecce spezzate ruvide a nutrirsi dei muschi del lato oscuro a settentrione... poi nella penisola abbagliante della nostra rivelazione. La mia anima.

Nevicano in vortice i pollini intorno
giù per le nari pizzicanti
a cuori aperti
nella gorgia cava
come il caos delle origini
il respiro ti tiene
alle radici.
Anima mia silvana selvaggia gentile.


Inspiro profondo i pollini vorticanti e sogno che la mia anima perduta è in me.

Questa prefigurazione ho vissuto molte volte nella solitudine del folto dei boschi marittimi o sugli erti sentieri incisi dagli afrori mediterranei dell'elicriso italico che impregna abiti e sudore, con il monte in alto e il mare in basso, specchio di luce che abbaglia e che manda fin su quel vento ligure che sala il palato, a testimoniare che c'è una via al ritorno... Per sassaie nidi di serpi salamandre al sole in fuga al passo tuttavia cauto che sente l'orecchio interno e appoggiarsi calmo sotto il carrubo a succhiare baccelli cuoiosi. Ora so chi è quest'anima silvana che ogni volta ero pronto ma invano a incontrare.

* * *

Scendeva correndo fiatone fiatone a rotta di collo saltando sui sassi e schivando di testa e di busto rami bassi sempre più veloce sul sentiero sempre più ripido le braccia distese come volando senza peso né toccare terra. Ma era bello buttarsi nei rovi e sentire il loro bacio sulla pelle. Vicino al gran muro di pietra della casa si fermò ansante a controllare che d'intorno nessuno fosse presente. Non le piaceva essere vista quando provava la sua abilità come adesso né la sua resistenza alla fatica. Poteva correre per ore e forse, pensava, per sempre, ché quando una gamba corre l'altra vola e si riposa. I grandi avevano terrore del sudore che l'aria fresca invece faceva svanire e le piaceva il freddo sulla pelle accaldata ma invece, sicuramente, l'avrebbero punita. Avventata - le piaceva questo rimprovero che sapeva di vento e di aria odorosa che tagliava la faccia e che quando ti fermavi svaniva e allora giù di nuovo, di corsa, per sentire ancora l'amicizia fresca sulla pelle arrossata come l'acqua gelida del torrente. Il bosco era un ripieno di odori forme e colori e anche la terra aveva un buon sapore. Trovava sempre il modo di assaggiarne un po' quando era sicura di non essere spiata, appena un pizzico di quella più morbida e pulita, presa con tre diti senza foglie secche né lombrichi, tenerla in bocca a lungo impastarla con la saliva e ingoiarla poi a piccoli sorsi come se bevesse. Se mi trovassi senza acqua, pensava, potrei bere la terra, non ho paura di perdermi e so sempre trovare la strada. O potrei far finta di star male, sbavarne un po' dalla bocca appena socchiusa e lasciarla scendere a piccole tracce sul mento, come se un rigurgito improvviso denunciasse la malattia chissà quale e poi scappare per non far capire il trucco e lasciare tutti agitati e di stucco, nascondersi nel bosco ascoltando i richiami disperati della ricerca fino a sera. Meglio di no meglio non mentire, meglio fare di nascosto per non dover mentire e dover spiegare tutto. Fanno sempre i processi ma riesco sempre a dimostrare di aver ragione.

Adesso il muro antico l'attirava. Bello il gran muro di casa tutto di pietra liscia e calda anche quando il sole se n'era andato e silenziosa la notte quando pian piano usciva di nascosto camminando come i ladri senza far rumore, poggiare pian piano la pianta del piede ché se articoli già scricchiola meglio saggiare prima come risponde e poi appoggiarsi e fare un nuovo passo. Girare intorno agli oggetti addormentati e ai mobili oscuri senza toccare ché non facciano la spia e poi pian piano abbassare la maniglia a non udire lo scatto e girare appena la chiave ché la serratura chiusa tenga la porta aperta, per il rientro. Sono furba, non mi hanno mai scoperto. Il gran muro l'aspettava come un amico fedele. Ciao, sono sempre qui, grazie di essere tornata in visita, ti aspettavo, sapevo che non mi avresti dimenticato. Sono sempre così solo! Mi piace quando mi accarezzi e quando baci le mie pietre. Non ci lasceremo mai! Mi gratti via un po' di muschio? Se non ci fossi tu a tenermi pulito...! Strappava rabbiosa i serpenti d'edera che gli si arrampicavano sopra, al suo muro! come un attacco di gelosia a difendere uno che è solo tuo e non deve essere di nessun'altra e schiacciava l'infame verdura sotto i piedi ché non tornasse mai più! Premeva il busto schiacciato schiacciato come a volerlo penetrare, le braccia aperte larghe distese come quando volava giù dal sentiero le labbra davano piccoli baci. Il suo grande amico, il fidanzato, il grande muro! A tentoni alla luce delle stelle cercava il buco dell'altra volta, nel quale aveva bisbigliato i suoi pensieri, i segreti che il muro custodiva e appoggiò l'orecchio, per sentire se ne uscissero parole, quelle che aveva confidato. Silenzio. Il muro non tradiva. Non era il suo grande amico? Gli amici non tradiscono. Ciao amico, ora vado, dormi bene e fa' buona guardia, io vivo e dormo qui dietro di te e ti penso sempre prima di addormentarmi.

La luce della notte aveva toni di azzurro cupo, non il nero che dicono, e si può vedere tutto e quello che non si fa vedere si lascia indovinare. Come il grande cipresso oltre il confine e gli arbusti bassi che delimitano l'orto e poi ci sono i rumori. Chi dice che la notte è silenziosa? I rami danzano lentamente perché di notte c'è sempre vento e non si fermano mai, solo che di giorno non ci pensiamo e ci sembra normale. Ma la notte! La notte il vento esce circospetto come a strisciare sognando tra le case addormentate per farci sapere che le cose non sono come pensiamo e che di notte tutto vive una vita segreta e riservata, che immagina e non dice. La camiciola era leggera e rabbrividì. Mi piace questo freddo che alza la pelle e dà i brividi e allora mi accarezzo per sentire il freddo che entra nelle mani e lo rispargo poi a lungo su tutto corpo. Di notte si può quando non c'è nessuno e solo il vento è sveglio e sono svegli i rami e sempre lo sono gli animali che scrocchiano gli sterpi per terra e non sai che cos'era quel rumore e immagini le storie dei fantasmi e della morte che si aggira a cavallo per portare via i bambini che stanno fuori la notte. Mi piace questa paura che è amica del freddo e mi fa spalancare gli occhi e ascoltare con il tun tun forte del cuore dentro il petto, ascoltare tutto quello che si dicono le cose tra loro quando sono sicure che noi dormiamo. Ma io sono qui e spio la notte ma non ho paura perché la notte mi conosce e siamo amiche.

Poi pian piano tornava chiudendo silenziosa per le scale di pietra fino alle camere e si fermava là dove dormivano, a sentire rumori, sussurri, come se non dormissero. Perché? Perché non dormono? Ascoltava il cuore in gola temendo di farsi scoprire ma c'era un mistero la notte... tutte le notti e doveva sapere. Forse... se avesse provato ad abbassare la maniglia piano piano come faceva con l'uscio di casa e socchiudere appena appena... ma era rischioso... Che dire se l'avessero scoperta? Era una cosa vietata e le conseguenze sarebbero state terribili. Pianse. In silenzio per non farsi udire. Poi, leggera e veloce come una formica, si allontanò anche stavolta, a malincuore, nel buio sicuro della cameretta dietro il grande muro. Qui, fino al sonno che cadde all'improvviso, il pianto fu dirotto, affondato nel cuscino perché non devono sentire non devono sapere che faccio le cose cattive.

Ma ora era ancora giorno e il grande muro faceva lo gnorri indifferente e fingeva di non conoscerla come se neanche la vedesse e lo guardava come si veglia un amico addormentato e si fa piano piano per timore che si svegli. Stai tranquillo grande muro, conosco il tuo segreto e tanto lo sai che ci vediamo questa notte. Ora devo fare i cómpiti ed è già tardi, sono stata in giro tutto il pomeriggio e forse mi hanno cercato, ma lo sanno che sono sempre qui intorno e basta un grido a farmi tornare di corsa e súbito. Sono una bambina buona e ubbidiente e che conosce le regole per non farsi sgridare. Mi piace esser buona e brava e anche a scuola a imparare le cose ché tutti così ti vogliono bene e dicono: che brava bambina, proprio brava! E intelligente. Che vuol dire intelligente, che uno capisce, no? ma tutti capiscono, no? Anche il bambino della quarta fila, che sta sempre lì a guardare nel vuoto e sembra sempre che dorma da sveglio, ma intende súbito quando la maestra ce l'ha con lui e cerca di coglierlo di sorpresa. Una volta mi ha fatto mettere la mano in tasca e dentro c'era una lucertola che veniva a scuola con lui e le dava un po' di briciole della colazione e stavano sempre insieme. Gli farò vedere il mio muro perché sono sicura che sarebbero grandi amici. Lui queste cose le capisce, è intelligente e non è stupido come gli altri!

Dalla grande casa venivano rumori che scendevano fino al pergolato dove la nonna in visita già preparava a piccoli passi il desco della sera e una cesta di fagiolini cornetti aspettava solo che qualcuno li spuntasse ma non occorre che me lo chiedano, pensava, so farlo bene io e presto e bene e mi piace quando guizzano tra le mani così verdi e sottili che sembrano vermetti ma duri e affondarci poi le mani fino in fondo e farli ricadere come una lunga pioggia verde e fresca con un rumore sottile leggero che pochi sanno ascoltare. E anche mangiarli crudi che sanno di primavera e dànno la saliva verde che tengo a lungo in bocca.  Ma dov'è la mamma? Perché non scende? Non sono stata cattiva e faccio sempre bene tutti i cómpiti. E nessuno sa quello che penso veramente. Scendi, mamma, lascia libero papà.

* * *

Daniel lo imponeva ma nessuno di noi ribelli volle assoggettarsene. L'acre sudore nell'aria che colora di nebbia il respiro, le scimmie d'intorno in elaborazione della figura magari per travestimento in una dignità d'essere non meritata in lenta evoluzione karmica dall'animale all'uomo, la musica ossessiva che addenta la mente e libererebbe il corpo... Due mesi di duro combattimento contro me stesso e l'ambiente buzzurro nella palestra sotto casa e poi l'abbandono bestemmiato. Daniel approverebbe, ora e invece, la mia percezione del piacere degli elementi del corpo in tensione che è un indice puntato verso una forma nuova di coscienza di sé, docili le macchine a forzare con grazia e con misura la quantità e la qualità della resistenza e dell'evoluzione, e piacere del confronto con la macchina stessa, che sta lì inerte e tuttavia attiva se io l'attivo e dipende da me e dalla mia capacità di dipendere la essa! È un segno del cambiamento, non il più importante ma quello più tangibile... Non diversamente, il violino riaccostato alla spalla e agito a corde vuote mi sorprende per quanto l'accordatura sia rimasta quasi intatta in questo lungo abbandono e saggio alcune scale perché ora, correttamente inguantato, il burattino riscopre la fame e la sete di nuove espressioni delle quali aveva dimenticato l'assoluta necessità o quando si scopre, nel silenzio e nella solitudine della casa vuota, a tracciare nuovamente su carta le linee automatiche che usavo per imbrigliare il mondo con i miei disegni surrealisti.

E, allora, trovare comunque in un me rinnovato nuovi stimoli progettuali per un improbabile ma forse possibile uomo nuovo o, finalmente, un uomo. Lente le trasformazioni e rapidi i cambiamenti... Corpo, violino, disegno, ginnastica esoterica, pulizia e potenziamento dell'eterico... senza l'accanimento del ragioniere che vuole gestire solo risorse utili, ma con il profondo piacere di farlo perché è giusto e inevitabile farlo e perché si muove nel  solco del processo dall'io al sé...  ed è bello e appaga. Tento l'autonomia e un nuovo me stesso. Il diario non scritto registra viaggi più profondi al contatto di una stabilità emotiva in cerca, che mi lascia finalmente qualche fiato e alcune risorse.

Come posso
ancora e nuovamente
stringere il vuoto
che si arrampica dalle molecole
tutti i domani infilzati con gli ieri
croce di case
nella periferia dell'essere sporco di terra
pànico ancora il volto
un inganno maschera di teatro
che mi nasconde?

Non voglio la parola che risolve e chiude.
Chi sono me lo dirai tu
volto nebbioso e gentile riflesso
nel flusso della creazione.

* * *

Sono stato secco e stretto per tutta l'infanzia, e improbabile, come un varano in un mondo parallelo, forse con la medesima aggressività ma nascosta dietro occhi dolci, femminili, mio gran vanto e risorsa anche da più grande, con le femmine delle mia e delle altre vite. Forse fu il modello ovviamente inarrivabile di mio padre a mettermi addosso questa smania per loro come categoria dello spirito. Dello spirito perché non sapevo quasi mai se davvero volevo oppure no confrontarmi con quelle dure reali morbidezze e mi sembrava ogni volta davvero strano che fossi proprio io quello che giocava sul palco a recitare una parte della quale non conoscevo fino in fondo nemmeno il brogliaccio. Più agito che agente. A ogni recita un'improvvisazione diversa, fino a esaurire, speravo, la gamma di tutte le variabili della psicologia mentre la gamma era infinita. E così, innamoramenti leggeri, tanto per fare perché il gioco valeva in sé, non perché dall'altra parte ci fosse veramente qualcosa di reale e c'ero solo io a inorgoglirmi perché sapevo provocare risposte, non perché cercassimo davvero insieme esperienze del mondo, almeno da parte mia. Il gioco della conoscenza. A volte, una presenza più reale lasciava lo sbigottimento del fatto che anche loro esistessero ed erano allora duri fendenti alla mia onestà sentimentale perché i pupazzi, invece, rispondevano e seguivano le mie regole; le altre no. Il potere sulla femmina rappresentava balugini di esistenza supposta raramente verificata come se ogni volta dovessi affrontare l'esame dell'esistenza, o meno, nel mondo della realtà dei rapporti e delle relazioni. Tutto sommato, un progetto positivo, come imporre alla natura regole che, sbigottimento, la natura seguiva e rispettava... Allora, caspita, era facille questo gioco! E, così, non c'è mai stato un incontro e la solitudire reale, non quella vissuta, era l'unico orizzonte, percepito come una vaga piccola nebbia lontana che non confondeva la chiarezza quotidiana, fino a teorizzare convinto che questa solitudine fosse, essa, tutto il mio orizzonte e che mai sarei stato in condizione di parità. Amare la femmina - e le femmine - senza amarne nessuna.

Dall'alto della città del golfo respiro umido e mite il soffio lieve che il mare mi porta fin qui sotto la pioggia fine al riparo della terrazza e senza fine e senza vento, che bussa timida e costante sulle foglie dei limoni oscuri. Luci immobili della città che proseguono iperbole l'asintote verso il nulla che scema come un suono che si smorza nella notte e nel mare, linea tremolante e permanente a disegnare il contorno invisibile della costa. Silenzio di cani lontani. Pazzi casuali che scoppiano fuochi notturni d'artificio - solo qui può accadere - senza motivo apparente qua e là come fiori d'orizzonte che sbocciano all'improvviso e dolci come rombo sommesso di tuoni. Il silenzio mi impedisce di parlare. Solo l'ascolto parla per me. Restiamo a lungo P e io sulla terrazza affacciata al silenzio.

- Hai mai provato invidia? - chiede improvvisa e la domanda esplode piana e lieve come gli scoppi ovattati che punteggiano il silenzio. Mi riscuoto perduto nel pensiero costante di lei come un precipitare da una scogliera a picco sul mare e gli stridi dei gabbiani che accompagnano la mia caduta «Venite! Ci sarà da mangiare!» mi riportano sul vimini della poltrona. Notti così sono rare. Un soffio appena più forte e qualche nuovo cane fa udire la sua voce sotto la pioggina incessante.

Confesso: - Sì, ho una sola invidia da sempre. Vorrei essere un uomo che non potrò mai essere, che ho sempre invidiato e che non sarò mai. Invidia che mi ha sempre assillato: da sempre voglio essere Zarathustra...

Ride P come uno scoppio che non si arresta di fronte all'assurda enormità ma non sono mai stato così serio... Vorrei che questa notte non finisse mai, le dico, perché è la nuova notte del mio primo essere. Notte di dolore e calma e buia come il mare piatto con le piccole luci che punteggiano l'orizzonte senza fine. Ride P sul vimini accanto, vimini a vimini, davanti al tavolino che regge il portasigarette quasi vuoto e il bicchiere di gin con ancora un dito di ambrosia. La notte della mia vita.

Euridice allontanata con il voltarmi troppo e troppo a lungo guardarla come una visione dalla quale non mi so distogliere, mito, sogno, preraffaelita dal volto virile e femmina come il golfo che mi apre lo sguardo sul nulla senza confini. Non vorrei dormire questa notte a eternare il giorno più lungo. E mi aggrappo alla decisione come un che annega e dentro di me non vorrei già aver deciso mai, trappola amata. Questa calma intorpidisce e lascia il pensiero errare sui fantasmi che mi hanno condotto fin qui. Il Caffè della Gatta non è lontano.   

Tra non molto, so, il sonno vincerà e dovrò assoggettarmi agli atti usuali dei giorni che passeranno tutti uguali senza fine nel vuoto che ho scelto, senza un gesto, se non di rifiuto di me come compagno della vita.

E così, la stabilità del nuovo nulla è un dolce corrosivo che coltivo come un giardiniere le sue rose - o, magari, i suoi peperoni, melanzane, pomodori... Quel medesimo ma differente nulla che ho coltivato per anni dopo la scomparsa di Daniel e che ha giocato un ruolo d'attacco, centro-avanti, mediano avanzato nel cercare senza trovare la porta avversaria come se la strategia della difesa fosse quella di non centrare la meta, mai più, e tutti i rapporti con le persone dovessero cadere senza fallo nel pozzo dei desideri da non realizzare. C ha condiviso la prima parte di questa caduta, P la seconda e ogni volta la nobile azione della leccatura delle ferite non sapeva che eternare il lenimento, non la guarigione. Nei rapporti con il mondo che il mio lavoro rendeva attuali, un passo indietro per vedere più dall'alto e, in definitiva, più da lontano, come a giustificare la progressività di un non-coinvolgimento quotidiano e un distacco non dalle conseguenze dell'azione, ché l'etica non lo consente e anche se fuggi ti riacchiappa sempre, ma dalle sue premesse: la locomotiva tira ma il fochista alimenta altri non-pensieri, come lavorare sul prana e a questo affidare forme e contenuti di una sopravvivenza, ahimè e tuttavia, necessaria e inevitabile.

La diversità del nuovo nulla è invece discesa più nel profondo, perché questo amore ha pizzicato corde più segrete che nemmeno l'esperienza di Daniel aveva coinvolto: credevo in Daniel e nelle sue strategie, ma come a un apparato, tutto sommato e tutto visto e tutto considerato, più esterno, come se stessi provando la sorte con l'acquistare quel biglietto della lotteria sapendo che il calcolo delle probabilità non mi era favorevole... Un me stesso che, insieme cacciatore di fantasmi e manager di magazzino, so riconoscere e accettare fluttuante e del quale posso considerare la fluttuazione come il solo aspetto stabile di questo essere cangiante, delle energie di quel poco di universo che riesco a percepire.

Questa nuova incombente depressione che si annuncia inevitabile e poderosa neanche fosse un monsone carico di pioggia che guadagna improvviso il cielo del presente, mi vede agguerrito nell'essere io stesso il mio monsone, anzi provocarlo e lanciarlo con ancor più violenza contro i tetti e le pareti delle mie architetture statiche e ben consolidate sulle fondamenta di tutta la mia vita. Ai tempi di Daniel ero esterrefatto dell'attacco subito né mai misi in dubbio le buone ragioni delle mie architetture. Ora mi sento io il demolitore e la gran palla nera che oscilla appesa alla gru può scagliarsi, controllata, contro sistemi di controllo che non controllavano un accidente, lucette colorate a scorrere sul cruscotto aziendale ma alle quali non corrispondeva assolutamente nulla o quasi di reale e la costruzione stava in piedi per forza statica, come un menhir messo lì a chiavare la terra per sempre.


* * *

Altro tempo, altre misure nella rincorsa degli spazi che mi tengono. Esco dal consueto seppur bohémien della città vampiro dalle cupole fredde e vitali per entrare nell'immedesimazione organica, soddisfazione di un'A che non mi voleva più girovagante alla ventura nella città delle cupole contro l'arcobaleno delle possibilità ma solido grigiotopo di un ruolo e una funzione. Questa baia di città mi attira e mi repinge e ad essa sempre ritorno come se un destino sconosciuto mi volesse là come uno dei miei centri, respiro d'aria dolce e occhi abbacinati dalla luce che ferisce e persiste dietro le palpebre chiuse, baldracca riversa nella quale ritrovo gli aneliti e il lerciume vitale dell'altra, della mia giovinezza, altre croci di vicoli stretti e ammuffiti pietre pallide selciati sconnessi come ovunque ci sia grazieadio un porto. Ritrovo qui quel chiasso quel fetore come un cadavere putrescente che a saper aspettare genera profumi dolci di rosa ché la vita è dalla morte nonostante la testardaggine di progetti che ci superano in comprensione. Il luogo della mia azione è improbabile, vecchio e nuovo stretto e addossato fra un molo attraverso il quale fuggo all'arcipelago appena posso e che infinite teorie di automobili immobili separano chiassose dal resto della città irta verticale impennata in salita a guardare quel mare che non possiede nemmeno in superficie. Esco presto dalla stanza che la vecchia pianista guercia dal seno cosmico mi affitta non perché ne abbia bisogno ma per compagnia ché anche mio cognato «un musicista uno scrittore» non vuole che viva sola «e questa era la stanza di mio padre, tenore e baritono wagneriano dove solo Verdi faceva botteghino» e mostra la vetrata Novecento di gamme floreali dai colori intensi che la luce del tramonto seppur nei vicoli riesce ad accendere delle fiamme del palcoscenico dove si esibiva a fare eterno il Kurwenal e mai Tristano. Ascoltare la sera in cortesia infinita fragili virtuosismi di maniera al pianoforte in compagnia di questa dama che «ho avuto un solo amore che la famiglia ha impedito ma era maschio e instancabile e quanti baci, sapeste dottore, e fuggivamo sull'isola per non farci scoprire e diceva che avevo il mazzo più appetitoso e ogni volta mi faceva morire». E la vergine folle del piano di sotto. Esco e mi tuffo nei vicoli lerci che sanno di torso di cavolo abbandonato all'angolo e pasta fritta cresciuta e il sudore delle mamme che vendono il contrabbando ed esco al sole della gran piazza di fronte la Storia e oltre questa brillare il mare e il suo profumo. Città dell'individuo come l'altra lo è della persona.

E primo incontro con lui, uomo e padre inevitabile quasi un destino già scritto di una delle mie vite, gonfio di etilico ma sempre classica dal mangianastri nell'ufficio di direttore e la candida dalle labbra arricciate della boccuzza morbida e curva sull'anca come una modanatura di raccordo appoggiata alla sua spalla anche quando ne sta lontana. E il piccolo paglietta in privato che la sapeva lunga ma «quello, Michele, non tiene figli - chissà?» e al quale sottrassi il facente funzione perché c'era adesso un direttore vero uscito primo al concorso nazionale «che non ho vinto perché tengo una brutta calligrafia» che voleva accordi per spartirsi ma invano un potere che gli spettava, diceva, e che mantengo invece ben saldo nella mia dignità di funzionario. E costretto comunque al diritto amministrativo odio della mia vita perché bisogna difendersi e attaccare, in poco tempo esperto come pochi per quel che serve e studiare anche la notte gestione aziendale che è la base di tutto e psico-sociologia dei gruppi  e informazione comunicazione e discipline correlate informatica che è di là da venire ma qualche avvisaglia già si presenta con strumenti eccessivi o del tutto inadeguati per i nostri bisogni e costosi per le possibilità e intanto impara e metti da parte. Per il resto, mondo nuovo il luogo le menti l'aria e l'acqua la luce i profumi l'organizzazione da ttersi in discussionescoprire come funziona e cavalcare la tigre del governo del personale. E ragazze che addosso ti ficcano gli occhi per strada a possederti e non mollarti anche quando sono scomparse e porti nel ricordo promesse fugaci non mantenute e quel brivido permanente che è immaginazione lunga del sesso, ma T arriva come un uccellino su trilli di flauto ampia gonna a fiori e camiciola in tela bianca che accarezza il seno delicato e tutta la snellezza atletica della figura illuminata da un sorriso che brilla nero negli occhi e candido nei denti forti e sani che mi afferrano e stringono ed è bello sentirne ancora il morso.

Per la prima volta la certezza di me T primo miracolo della mia vita e allora è vero che so fare e decidere da solo a gettare strategie come ponti sul Bosforo e le notti insonni con lei a ruzzare silenziosi e bisbigli infiniti sul soppalco a casa dell'amica gentile e devota drogata di cortisone sonnecchiante acconciata vestita sul divano nell'ingresso del quartino quasi un basso senza luce né aria al confine fra due famiglie di malaffare. Scambio di genitori conosco i suoi lei i miei quasi un fidanzamento e progetti lunghi e di passione gli Stati Uniti una casa editrice la libreria con buffet enoteca e sala da tè mi abbraccia in tassì e sussurra che sarà segretaria e amante e complice per sempre...

T abbandonata in fuga dall'una all'altra città.

* * *

Altro tempo, altre misure e la casa di Màlato accoglie al gran passo, gheriglio di noce in un quartiere di mezza età, tronfio della retorica impiegatizia della sua architettura, nei cui pressi ho abitato al primo migrare quando dovevo entrare in casa solo di notte per non allarmare il portiere e guadagnare l'ultimo piano dal quale le statue barocche della basilica lontana impreziosivano come un sogno a occhi aperti galleggiare sullo sterminato deserto dei tetti anonimi e irti delle antenne intersecanti a darsi danni hertziani l'una contro l'altra... Qui una strada a mezzaluna che chiude non alla luce ma ai rumori della città, che non giungono fin quassù se non diluiti nel silenzio e nel vuoto del nulla che ci circonda. Alto, massiccio, buoni gli occhi luminosi e graziati dalla comprensione che penetra senza aggredire. Poche parole di introduzione ché sappiamo tutti perché siamo qui. Gli avventurieri sono diversi e di tutti gli strati, più donne che uomini come sempre dove c'è da fare per davvero a testimoniare ancora una volta la diversa reattività del genere. Ginnastica semplice, tanto per scaldare i corpi e poi si comincia. Fisiologia del corpo eterico. Organi dello spirito. Ingegneria delle trasformazioni. Chimica eterica del sale. A mezza via fra l'esoterico vero e il new age con tutti i giusti sospetti del caso, ché ne ho visti tanti uccidere alla buddhista, ma questo strumento si rivela onesto forse perché non "filosofico" né religioso e sopperisce in parte all'abbandono della via regia per proseguirla sul lato del soggetto, fin tanto che l'oggetto è inaccessibile, e mantenere così un contatto forte e soprattutto operativo con molti dei mondi dei quali ho bisogno e che sono tutta la mia vita.

Mi ci sono immerso a lungo per anni e in profondità come in un'apnea nella quale si continua a respirare attraverso branchie modificate. Il mio vero mondo tutti i mondi come a spiare ginocchioni uno sguardo gettato oltre la volta celeste: il resto sono accidenti ai quali presto il minimo di attenzione bastante per la sopravvivenza delle relazioni, piccola droga per vivere e della quale non m'importa nulla se non per la piacevolezza ma anche per la fatica di giocare, accettandole tutte e fino in fondo, le regole di un gioco esteriore che nulla aggiunge né toglie di essenziale, se non lo spreco inutile delle energie intese a conservarti e svilupparti quel piacere e quel dolore con esseri, tutto sommato, ancora meccanici e mi dilato a coprire tutta la creazione... Partecipa P ma un po' di bolina non a caso acquariana pura attratta dal mondo nuovo della precessione che ne stimola l'immaginazione attenta alle nuove pratiche ma che insieme la respinge per le implicazioni metafisiche che impongono a contraltare la melanconia irrinunciabile e la solitudine di chi esige tutto e ogni cosa e solo in questo vive e respira...

Ed eccomi qui corpo di luce sporca ad assorbire a ginocchi piegati o solo palme rovesciate a pregare con il corpo come una forza potente gettasse il solvente numinoso negli ingranaggi arruginiti e insabbiati mentre il mio piccolo assoluto squarcia il petto e dissolve tra le stelle, inadatto alla vita come albatros sulla tolda sempre soffrirò della separazione diviso in verticale senza speranza di riunificazione. Nell'amore negli amori ho tentato un'unità mai raggiunta. Come parteciparlo a chi non si è ancora razionalmente appresa la medesima separazione degli io che la pervade perché l'orrore della sofferenza ne ha fatto una macchina aliena, un passo, un controllo, e alla via così a sprecare giorni di morte fingendo che sia vita?



* * *

Nulla di eroico, ma costruzione della mia struttura e nulla di veramente importante a parte il fatto che ero lì, tutto presente per quanto potevo esserlo e sviato come sempre da chimere di tenebra che sembravano di luce... Ripercorro rivivendo frammenti scene di film, non scene madri, scene di passaggio fra una scena madre che non c'è e la successiva che non c'è nemmeno dove unica scena madre è l'approdo alla città, questa, che ho scelto infine come si mette un paletot sulle spalle per indossarlo e ugualmente non averlo indosso. I rapporti, le relazioni con femmine, sempre affannato per qualcosa di vero e raro a soddisfare una sessualità infinita e insicura, occhi parlanti, un ricciolo come Floria Tosca, una piega del collo inclinato a guardare di lato, dita leggere e scarne in palme lunghe, un certo modo di piegare l'anca, oppure un profumo o una risata o anche solo un abbozzo di sorriso che attraversino lo spazio in diagonale a indicare forse un essere autonomo e d'eccezione o magari anche soltanto una piega delle labbra che chiedono l'urgenza di un passar su in punta di lingua e naso su palpebre chiuse...

Questa città vampiro alla quale sempre ritorno è donna e volerle entrambe come entità scambiabili e assolutamente identiche mentre dietro la donna il maschio nascosto tra le fronde mimetizzato di foglie e fiori attende al varco come d'agguato a un esploratore alle sorgenti nascoste.

Geografia costruita su direttrici geometriche, platoniche, sovrapposte e intersecanti come se un Pacioli avesse voluto distorcere sul piano una divina proprorzione impossibile a collimare su superfici reali. Perché questo bisogno di percorrerne senza tregua le strade alzare il naso alle architetture e al cielo costretto nei muri che lo riquadrano come se fossi io stesso un pezzo di casa palazzo trabeazione cornicione che se ne sta lì a guardarmi dall'alto? O lo stesso cielo irregimentato? Architettura della psicologia. Che vuole questa città da me, che non chiedo altro che adagiarmi fra le sue braccia come un amante spossato e sonnolento e che invece mi punge con spilloni da dama a rimettermi in piedi tra le volute barocche di seni e anche accoglienti che sussurrano l'oblio...

Strade. Angoli di strada. Sbiechi incroci non torvi e diagonali dell'anima. La mia angoscia percorre quei sentieri e si identifica come un mite schizofrenico o accoccolato adagiato scivolato su un frontone sulla curva di un portale o semplicemente disteso sul basolato quadrato di porfido grigio che assorbe i mei passi per guidarmi chissà dove dove non voglio e mi ritrovo in un quadro del Seicento illuminato da squarci di luce laterale ad adorare qualche bellimbusto della religione come una comparsa nel film di me stesso. Pietre bianche riempiono i polmoni a respirare aria di travertino. Città che ho dentro città che sono io un io gigantesco a ricoprire con il mio corpo esteso come un firmamento ogni piega ogni modanatura gonfia di vento di questa architettura disumana...

Sto nella pietra e questa pietra mi attira come un'amante insaziabile a coprire con il mio sperma le volute gli angoli aguzzi le curve estenuanti le superfici corrose dal cancro del tempo che addolcisce i diedri perché lentamente si spegne e muore fingendo la forma dura e solida dei parrelepipedi accostati. Pazzia della città e pazzia di me che voglio possederla e non possiedo.

Il chiasso insultante delle automobili mi proietta verso l'alto con il suo odore di morte a fuggire l'insieme dei miei io e questi quadrati di galera che riquadrano i cieli e volo libero gabbiano sui tetti piatti colmi di giardini e sui coppi d'argilla che mi riportano giù alla terra, una terra che non c'è, coperta di pietra e di cottura e di morte d'asfalto gusto e odore di liquirizia elicriso ricordi della terra vera che mi spugnano le fauci assetate... Oppure... oppure sono io quei veli di pietra che danzano l'azzurro come lenzuoli scossi e stesi che il vento feconda del seme dei pollini di primavera... Pietre gravide che s'incintano e gonfiano a generare altre pietre e volute e modanature tori lesene e capitelli timpani pinnaccoli lunette strutture portanti e portate come fra braccia amorose a perpetrare questa città che non ha fine e che sono io stesso onanistico.

* * *

La solitudine mi accarezza lieve con dita di carta vetrata. Le colline termali pungono di zolfo e ne impregnano la pelle e i vestiti e ogni giorno mi calo come una preghiera di non so quale religione nella tomba che respira aria rovente nei polmoni per estrarre gli umori di tutta una vita. Fantasma umido e gocciolante risalgo in un panno bianco i gradini di ardesia che riportano dalla morte dove l'inserviente mi avvolge come un bozzolo di sudario sul lettino di coperte pesanti. Lentamente entro in meditazione mentre il tempo fa il suo giro in attesa che una carezza sulla fronte madida mi avverta della fine dell'avventura. Queste terme non sono lontane dalla mansarda che condivido con A e che si affaccia verso la macchia grande di cerri e castagni delle mie esplorazioni nella coscienza del vegetale. Dalla gran piscina distesa come una terrazza d'aeroporto mucche e cavalli al pascolo si spezzano e si ricongiungono lenti dietro le balaustrine classiche che filtrano la visione della collina di fronte. Amo questa macchia mediterranea che sa di terra arsa e colori forti e odorosi che ritrovo nelle spezie che saporiscono il mio cibo e più volte ho rinnovato la compagnia dell'elicriso dagli acheni che sanno di liquirizia sulla mia terrazza di città.

Qui il tempo scorre regolare e maniaco nella ripetizione obbligata dei medesimi gesti finché la ripetizione stessa fa loro perdere i tratti distintivi e tutti si confondono nell'unico gesto vitale che sono le funzioni automatiche del corpo e la nube d'ovatta dello spirito non eccitato dalla ricerca smaniosa della coscienza. E fuor di coscienza galleggio nell'acqua calda sotto un sole che penetra oltre le palpebre chiuse a dar colori d'arancio violento ai pensieri che mi vagano intorno, sorrette le ginocchia da tubi galleggianti, tra vecchie statiche caparbie degli ugelli dell'idromassaggio e il loro ottuso gorgoglio è l'unico suono al quale concedo di penetrare.

P un po' va e un po' viene dalla città e alterna lunghe esposizioni al sole rovente a lunghe conversazioni al cellulare un po' per lavorare in vacanza e un po' per organizzare la sua prossima partenza da me e dalla casa che ci ha visto sperimentare le nostre condivisioni. Parliamo la sera di noi e degli altri noi che siamo lei e io sulla terrazza fresca al salire dell'umido boschivo e di questo accadere che ci ha gettato in angoli affrontati a ricominciare ciascuno per proprio conto appercezione e giudizio e strategia dei nostri corsi nuovi e ignoti.

* * *

Annacquo il mio vino a mitigare questa sera d'estate che sa di aria ferma e calda nel bicchiere di acciaio ricordo di sete lontana che s'imperla di goccioline crescenti, compagno Miù Miù aggettato sul telefono che gli fa da cuscino, sperimento il tempo immobile di questo crollo del mondo nuovo che mi illudevo di creare insieme con la liberazione delle verità di tutta una vita che non ho osato perseguire. Fuori, la città mi circonda del suono gutturale di cori dementi degli spacciatori di tifo di calcio, altre stupefacenze e petardi che segnano d'improvviso l'appuntamento annuale, cadente di stelle questa notte o qualcuna dopo, a chiudere questo breve tempo che è durato già troppo a lungo.

Tutta la divinazione della quale sono capace mi conforta a suo modo di tempi lunghi, processi lenti che le insicurezze della mia fretta di risultati vorrebbero invece istantanei e risolutori, come ho sempre manovrato in me e in altri. Questo amore, finalmente, di me attraverso lei è molto di più della passione metafisica per una femmina d'eccezione, possessi delle anime e dei corpi sempre diversi e sempre uguali, cui solo la freccia dello sguardo ferisce quell'unico punto segreto della persona che saprebbe sciogliere come neve fresca il grumo ben ghiacciato dell'io, quello che ti porti come un sisifo per tutta la salita e che ritrovi estraneo alla fine di ogni nuova morte. Qui sono io a giocare me stesso come un gioco che non ho mai giocato e che è gioco di vita e gioco di morte, gioco del quale è stata il detonatore inconsapevole. La chimica delle trasformazioni è già disciolta nei nostri liquidi. I tempi della reazione.

Non cercherò la salita struggente
verso i tuoi occhi che guardano altrove
il nulla
che mi hai diffuso intorno
è un sentiero che percorro amaramente.

Si attorcigliano di convolvoli le colline
che abbiamo percorso ahimè brevemente
come un sospiro gettato sulla primavera
o un'àncora oltre questa riva oscura che ci divide
gretta come una tenaglia
e che ci vedeva rondini stridere
quando il tramonto già scolora la sera
e tu e noi
amore mio troppo vicini
con la faccia le mani il corpo le labbra
non alberi ma arbusti schiantati su zolle dure
assetate
dove andremo domani?

Lo so. Saremo nel silenzio della mente.
In attesa.

Chissà? Si apriranno forse un giorno questi cieli
amore mio
su tutti i grumi e lombrichi di terra di questa terra
che ci costringe aspra come un sepolcro e polvere del passato,
nulla che si arrampica verticale invano
a pesare sui nostri giorni dell'oblio.
Cristalli di ghiaccio come sassi
tetri nei nostri cuori.

Ma tu apri la finestra, amore. Ascolta. Sono amici.
Cantano.


* * *

Ricordo R sottile, che sa scegliere e portare con grazia l'eleganza che acquista nei supermercati accostando forme colori tessuti per un'aria che sa sempre di primavera. Labbra delicate e appena arricciate, attraenti, non perfetto il naso irregolare di un corpo da bambina seno sottile. Vezzosa e in posa nelle foto dell'infanzia, le gambe anteposte come una modella, un'anca rialzata sul piccolo bacino che s'indovina fluttuante. Nella conduzione della biblioteca è razionale, scientifica ma di buon senso, empatica con chi la frequenta amica coetanea con le altre quasi a regnare tutte in una repubblica femminile il cui profumo non può non impregnare la carta le legature il metallo degli scaffali il linoleum del pavimento. Tiene la scrivania accanto alla finestra e il sole gioca riflessi controluce sui suoi capelli alla Hayworth... Ci piaciamo ma è timida e diffidente per la separazione recente da un marito che le preferisce una qualunque perché è per lui troppo fine e delicata. È un fiore dal gambo esteso come le gambe dritte e snelle «la mia coscia lunga...». L mi corteggia cavernosa dura e tenace (imbarazzato chiedo strategie a Teresa che non mi può aiutare e non sa che dire perché «per noi è normale essere corteggiate») ma per non apparire troppo aggressiva instaura una frequentazione ellittica di noi tre, al lavoro e fuori, e costruiamo a piccoli passi amicizia e  confidenza e alla fine rinuncia.

R un pomeriggio sul divano di casa a parlare di cucina e tecniche della pulizia come massaie complici di trucchi e soluzioni. Al momento di andare, bacio leggero le labbra invece della guancia e rimaniamo un poco lì imbambolati per la coscienza improvvisa del segnale. Non possiamo non rivederci e mi si affida completamente apprendendo finalmente il gioco dell'amore, spontanea e onesta sempre furba immaginazione femminile e istinto di piccole malizie. Ci amiamo a volte la notte che passerei nella mansarda vicino alla macchia grande e ogni giorno nel suo intervallo di pranzo, cucinare nudi pollo e peperoni e l'introduco al gusto del vino finché non giunge il momento della ripresa ma spesso telefona alle complici ché non le parte la macchina... Il buon professore la cerca, invano, quello stesso al quale darà la figlia, eredità della sua morte.

Costruisco accurato il ricordo alla ricerca dei segni e degli errori che me l'hanno costretta verso il suo destino, la mia prima catastrofe dei sentimenti, quella stessa che mi farà percepire da lei nella città dove giravo la gran piazza protesa sul mare e i vicoli salsi di vento scrivendo e digiunando fino alla digestione... In fretta guarito per virtù meccanica io che non ho mai amato e la città igroscopica sancisce il ritorno al banale di me stesso. Cercato ma non trovato.

* * *

Parlano gemelle alte
senza fine nel nero
le palme la voce del vento
sfrusciare di rami le foglie
lunghe come un destino
i nostri
e sottili e costanti
di parole - le nostre parole
che non abbiamo saputo dirci.


Questo amore va e viene come una risacca senza fine che la solitudine ormai stabile restituisce come sabbia bagnata all'angoscia di tutti i minuti trascorsi. Dove è l'errore.

* * *

Il dormiveglia si protrae per ore finché desisto anche dalla masturbazione che un po' di sollievo sempre lo dà e mi sveglio completamente a metà della notte, stranamente muta per un quartiere eternamente sveglio di squallidi schiamazzi. Forse scriverne mi aiuterebbe, vecchia soluzione. Indosso la felpa ancora odorosa di palestra e riaccendo il riscaldamento. Spengo per avere più RAM il programma che mi cattura tenace e notturno video di Bellini e Donizetti e accedo al Google che archivia la mia vita. Apro un nuovo pacchetto di sigarette e stappo un Tawny che  mi dispongo accanto, un sorso ogni poco dalla bottiglia anche se oggi ho bevuto e fumato molto con poco cibo e i muchi del naso mi ostacolano il respiro. Il gatto unico compagno sonnecchia e ronza vicino, sotto il calore amico e silenzioso della lampada e il mento sul telefono perché nessuno dovrà chiamare. Guardo e invidio una saggezza che mi è preclusa. Questo amore tormenta e non concede sonno né tregua. Mi fingo e arzigogolo tenacemente gli scenari della mia vita prigioniera e non vedo via di fuga. Immagino di star espiando il contrappasso delle molte che non ho amato o amato male anche se poche volte ho voluto illudermi di farlo e bene e ora che finalmente mi scopro in grado di farlo e riamato l'angoscia non lascia spazio per una felicità alla quale avrei diritto e che sarebbe a portata di mano.

Che idiozie. Lei non me lo concede. La sua prigionia concede solo il fiore del tormento e la perfidia del farmi pagare questo nostro primo tardo amore a caro prezzo negandosi e negandomi con tenacia da erinni o melusina che crede di salvarsi distruggendo. Sono entrato di forza inevitabile nella sua vita e per questo non c'è perdono. Come non c'è stato mai perdono per  una vita che non si è mai perdonata a rinnovare senza tregua la famosa dialettica vittima e carnefice. Vedo acutamente e con profondità ciò che all'inizio non sapevo discernere, troppo sbigottito e innamorato e troppo nuovo all'amore per una sintonia secca e fredda ma non indifferente con il punto di vista che lei mi oppone come un granito di dolore. Stacco ed esco sul terrazzo a sentire le piante notturne e i brividi che mi riscaldano. Questa stessa solitudine che ho desiderato come una palingenesi colora la mia veglia e rende inerte la sua assenza se non per l'accettazione del sacrificio che mi si impone. Un giorno forse lontano le molte persone ferite che sono e che mi tramano dentro riconquisteranno una supremazia meccanica e con un giro di valzer di stupido orgoglio sapranno operare il regresso a un io che non voglio più e dal quale questo amore mi ha liberato forse per sempre. Come ho sempre fatto quando l'errore non era mai mio. E sarà la peggiore delle mie sconfitte.

Anche il gatto si risveglia e vuole cibo. Albeggia timido tra le case e ricomincia questa timida insonne non esausta sopravvivenza mentre sfuma intorno il senso o forse il contatto con la realtà sempre più diafana e irraggiungibile e lontana e ogni azione o frammento o tentativo d'azione cade nel vuoto come sigillato in una capsula roteante e in libera e inutile inerte caduta e quel roteare è tutto ciò che esiste e nulla d'intorno risponde né consente un aggrappo, un chiodo piantato nella roccia e una solida corda che arrestino di colpo la caduta. Perché continuare? Dov'è il seme l'energia il dogma vitale segreto l'essere profondo che, come un computer spento, riattivi a comando elettrico i processi di ritorno in vita, come il bootstrap del Barone con i suoi stivali? Non luogo dove fuggire e azzerare persone relazioni pensieri nemmeno luoghi alterati della mente né conchiglia vuota dove si rintana il bernardo a continuare questa finzione d'esistenza - come trasparenza di un fantasma che la luce attraversa e penetra la mano senza ostacolo e passa dall'altra parte. Sappiamo sì oh molto bene del vuoto nulla dell'ultima minuta scatola cinese e su questo nulla metafisico fondare come sempre fatto prove d'esistenza cartocci ricorsivi che ne contengono altri fino alla matrioska gigante che s'incarica dei contatti e che il mondo riconosce. Arrivato all'ultima scatola per spoliazioni successive, non riconosco me stesso. Cosa spinge l'Eremita, Fukurokuju, a proseguire? È forse solo quella spinta iniziale che ha cominciato tutto e che squarcia ogni anno le cortecce al germoglio della continuità? Non si chiede la pianta che non ha altro progetto se non se stessa e niente al di fuori di sé se non la comunità vegetale. Quale la mia comunità fondante di un cogitamus che salva provvisoriamente la vita? O è l'eterno disprezzo per l'altro che chiude alla fine senza uscita nell'ultima scatola del nulla?

Dimmi che cosa da te
Amore mi allontana
se non la scorza imbrunita
dei nostri pensieri
inesorabili cristalli
di sabbia magma viscoso
del nostro precipitare
giù dal ponte di Münch?

E dimmi Amore che cosa
a te mi avvicina
se non i rubini del melograno
che spandi indifferente
a pas-de-zephyre
gli occhi dolcefissi
su un altro universo?

Sei tu che esisti
non il mondo
che ti contiene.


* * *

L'India è un lago dal quale non sono riemerso. A e io alla ventura senza programmazione se non il biglietto di ritorno il solito agosto dei monsoni le vacanze indiane dei poveri in viaggio su treni e corriere stracolme di gente anche moribonda per morire a Varanasi anche sulle reticelle dei bagagli e sui tetti e ondeggiano in basso le sputacchiere colme di vomito e di sputo rosso di betel fra i cessi di merda gialla da colera a dormire in alberghi per i locali con i lenzuoli portati da noi intrisi di essenza di limone contro gli scarafaggi dove il bambino notturno guardiano sulle scale caca lì sui gradini non potendo uscire a Bhadgaon ventosa di bandiere e ruote di preghiera che giro anch'io tanto siamo tutti cristiani... che quando a Chicago al Passaggio in India in anteprima sùbito ricordo è stato l'odore di orina, fiori dolcemarci, acqua, polvere e curry tutto insieme che mi assale le nari di nostalgia come se ci fossi catapultato dentro e l'acquaiolo che ci rovescia acqua dall'otre insaponati nudi nella stanza e la dea col bimbo in braccio che chiede rupie sulla strada che non ho e le dò la mano non avendo altro e tutti i giorni poi mi aspetta per fare un pezzo di strada insieme mano nella mano sorriso scolpito a non guardarsi mai e cammino nel bosco nepalese affianco il lebbroso giovane ingegnere cartilagini mangiate non più infettivo ma va a bagnarsi a una fonte sacra per guarire e il bimbo disperato che non ho saputo consolare chiuso nel mio io in difesa e sconto ancora questa pena. Il disprezzo colto negli occhi del Gurka che guarda appena i due estenuati sui gradini di un tempio lui che se va impettito guerriero per la sua strada e le galline decapitate spargere sangue nero dal collo tutto intorno ultimi spasimi correndo intorno alla Kali nel bosco tra gli urli e i canti dei fedeli e la seminuda che mima l'amore in onore di un Krishna bambino dagli occhi bistrati nel tempio che forse non sa attonito che cosa succede. L'ospedale di Madre Teresa è un luogo di morte nella città vecchia pochi corpi sudici riversi sul pavimento di terra morire qui o altrove non fa differenza ma le suorine si affannano intorno a far che.

«Tu per noi vali meno di questa cacca di vacca» spiega l'intellettuale per strada e sospira «che peccato che non sia nato indù ché sembri una brava persona».

Le puttane ci guardano e additano ridendo dalle finestrelle e si chiamano «guardate guardate» ché qui a Gaya si è invertito l'ordine delle cose e siamo noi oggetto di viaggio intorno come se fossimo noi la rarità da visitare.

Schubert suona la Trota sui laghi di Pokhara in barca riflessi capovolti nel cielo che ci avviluppa immobile in compatto silenzio nella cerchia dei monti lontano di neve se non i remi entrare e riuscire stillando dall'acqua verso il tempio immobile dell'isola che lenta ci avvicina. Sale lento il trenino tra i campi di alberi giganti di tè che ci passi sotto a Darjeeling e a mano a mano si apre l'orizzonte e la piana del Bengala è sempre di più immensa sotto di noi infinita e il mare curva d'angoscia la terra. L'aria è fine e il prana illumina i polmoni.

Torniamo una sera è quasi buio nella strada senza lampioni una folla sul bordo sotto casa candele orazioni dietro un cadavere esposto nel sudario per elemosina a comprare legna per la pira del giorno dopo e la vediamo la pira il giorno dopo pochi fuscelli sul gatt a bordo del fiume sacro perché si getta nel Gange ma il cadavere non ce la fa a bruciare tutto intero troppo poca la legna d'elemosina: allora, prima il tronco poi con un bastone si ripiegano le gambe indietro per finire la cottura calcinazione lenta molte ore mentre intorno i bambini si tuffano nel fiume e ridono sguaiati ché gli spruzzi spegnerebbero dispettosi la pira anguille a sfuggire i parenti che li inseguono con bastoni ardenti sottratti dal catafalco ed è la vita che irride la morte. Odore di carne ai ferri che per mesi non ho più saputo accostare una bistecca.

Caos dell'India intelligente che non ti guarda mai negli occhi e vede oltre come se non esistessi non diverso dalla sabbia del fiume dove lavano i panni e si lava nudo il vecchio sannyasin e lava lui stesso gli abiti zafferano che stende sui rovi e aspetta che il sole faccia la sua parte. Calcutta nel traffico di nafta cammina con noi e tutti andiamo senza sosta nel chiasso e nella folla sotto i trasformatori d'intrico di fili appesi quasi alle finestre dei panni stesi sopra la vegetazione dei negozi di qualunque cosa che neanche Napoli e si sfiora ogni volta occhi neri di sguardi vuoti nasi d'Europa e narici frementi aspettando il prossimo rovescio d'estate che attenua il sudore dell'aria che arroventa il respiro.  

E sui tetti oh sui tetti a terrazza di Kathmandu all'alba di ogni nuovo giorno riti al sole nascente bruciare d'incensi offerte di riso e chissaché gesti e giravolte di danza ogni tetto un rito differente ché tanti sono gli dèi e ciascuno e ogni stirpe sa chi gli appartiene tra i templi di legno inciso dove gioca ilare il vento scolpito di seni arroganti e sessi di bastone accoppiati come se l'universo copulasse tutto intero e uno solo e senza sosta sono i sassi colmi di questo sperma di bestie uomini e dèi rocce leccate dall'onda dei fiumi che leggono estenuanti il devanagari dei caratteri tracciati e li portano giù con sé giù fino al mare che accoglie i suoi fiumi tra bandiere che sussurrano al vento e gli aquiloni...

* * *


5 commenti:

Anonimo ha detto...

Non è prosa, è poesia. Della poesia ha la la lievità e la durezza, la malinconia e, raro, il sorriso, il sospiro e il grido, l' abbandono e la ribellione, la radice di umide tane e il veleggiare di fantasticate (ma non impossibili) nuvole libere, l'onda morbida dei ricordi e la durezza marmorea
del qui e ora. Tutto questo sei tu, il tuo centro micro-macrocosmico. Tu sei tutte le donne che hai conosciuto o avuto o sfiorato e tutti gli uomini che hai condiviso, sei statua e scultore, prigioniero e carceriere, carne e margherita, secchio e luna. Non cercare la luna nei pozzi o nei secchi : essa sta sulla superficie e non sul fondo, bevendo l'acqua della vita, tutta anche quella amara, anche quella fangosa, si beve anche la luna e i sogni e la saggezza che essa racchiude. Sei il corpo dormiente, pesante di ossa e sangue, capace di dolore e lo spirito che si libra al di sopra di esso angelico di vento e musica. Mirimiriadi di mondi sono l'universo: saggia Carolina che ti diede l'esatta risposta! Siamo soldati di battaglie ogni giorno vinte e ogni giorno perse, riversi in campi di grano che dalla nostra linfa rinasce.
- Marinella -

Pellegrina ha detto...

Che storia tristissima! Auguri alla piccola animula. Raccontaci ancora dell'alchimia...

Anonimo ha detto...

I' m currently blogging for a (impoverished) living instead of someone else... but I like it. You' ve inspired me to keep doing it, and look to doing it against myself in a little while
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Anonimo ha detto...

Hey, I am checking this blog using the phone and this appears to be kind of odd. Thought you'd wish to know. This is a great write-up nevertheless, did not mess that up.

- David

Anonimo ha detto...

Each of us dreams of beefy purchases. We are stuck in my md the images that we mark in movies or on commercials. Newspaper bags laden with women march proudly sometimes non-standard due to shopping malls. Oh yes! It's something I wanted to knowledge each of us. Artistically it certainly need adequate monetary resources. Be that as it may, it is quality paying limelight to something else. Due to the fact that those paper bags. Certainly each of us with such well wishes reach shopping, or by reason of any other purpose [url=http://www.pakiart.pl/index,9,38,pl.html]wizytówki kielce[/url]. Nowadays we can take possession of in such bags specializing in the companies. Extraordinarily many times we also possess with these certificate bags which are bags ordered by the specific shops and businesses.