domenica, dicembre 18, 2011

L'amore vegetale - Una storia vera



Iamque super geminos crescente cacumine vultus 
Mutua, dum licuit, reddebant dicta “vale” que 
“O coniunx” dixere simul, simul abdita texit 
Ora frutex: ostendit adhuc Thyneius illic 
Incola de gemino vicinos corpore truncos. 
Ovidi Metamorphoseon, VIII, 716-720 

Non si vede bene che con il cuore. Sembrano due le querce, ma sono una. Nate dalla medesima matrice sotterranea della terra. In superficie i tronchi divergono, ma una è la radice che si srotola e ramifica e intrica tra meridiani ed equatori e da un unico ombelico profondo e oscuro succhiano nutrimento di linfa sangue e sperma. Se uccidi l’una, l’altra muore per prima. Questo è il semplice, terrifico mistero che sconvolge chi, sulla terra, sa solo camminare... Mistero. Superstizione. Poi odio e distruzione. Ma le querce, figlie e a loro volta madri, sanno resistere con centenaria scabra durezza di tronchi e aereo bisbiglio di foglie... 
Marinamare 


Tirava un vento freddo. L’ariaccia subdola si insinuava sotto i vestiti, carezzava con dita di ghiaccio a orripilare la pelle secca e ruvida come carta vetrata. Rialzai il bavero del cappotto e strinsi le falde sul petto per preservare lo scarso calore residuo. Il vento stormiva a lungo le foglie e i rami come un lamento oracolare in un linguaggio ahimè sconosciuto. A una svolta, mi si pararono dinanzi le luci inaspettate di una locanda. Dai vetri appannati filtrava morbida come un trucco fotografico una luminosità calda e invitante. Senza riflettere raggiunsi d’un balzo la soglia e spinsi il battente.
Gli occhiali tondi si appannarono all’istante sì che vedevo come attraverso un sogno. Le nari dicevano di alcool, muffa, fumo, candele di sego (...sego?) e legna resinosa. Brusio indistinto che cessò. Restai immobile nel silenzio, poi avanzai un passo quasi alla cieca. Il brusio ricominciò ma più blando e ovattato, a sussurrare di me. Indovinavo alcune figure presso un tavolo, un bancone di legno consunto sulla sinistra con brillare di cristalli colorati. Bottiglie e bicchieri? Una sedia invisibile protestò con strepito legnoso quando vi incespicai.
- Dober večer, azzardai.
- Dobro jutro, raje...
La voce era maschile, sull’acuto, ma arrocchita, cartacea, più giù di un buon semitono, da vecchio. Sì, era buio fondo, convenni fra me. Avevo vagato quasi tutta la notte come ubriaco, ancora sotto l’effetto della visione. O avevo visto per davvero? L’immagine era incisa negli occhi della memoria e la mente non sapeva pensare ad altro. Al calore del locale tutto sembrava ancora più irreale.
- Rad bi grappa... žganje, prosim, dissi con un filo di voce mentre calavo su una sedia.
Gli occhiali si erano tersi e potevo osservare con sicurezza. Tre persone erano a un tavolo, immobili a guardarmi, Vocazione di Caravaggio. Il vecchio che aveva precisato il tempo, una donna e una bambina. Mi calamitò. Minuta, bionda, dai capelli lisci che sfioravano le spalle e sfida negli occhi castani. Anche la donna era bionda ma più scura, stopposa, capelli corti tirati indietro e il viso duro, fessi gli incisivi superiori. Fra le labbra stringeva una lunga sigaretta accesa, che fumava con avidità. Il vecchio pareva dolce, forse sognante, ma quando ci scambiammo gli occhi percepii l’acume delle pupille che cercavano risposte. Pirata sotto un aspetto da venditore di pere cotte.
- Hladno, nocoj...
- Sì, risposi, do smrti. Credevo di morire.
- La grappa risuscita e riscalda, sorrise appena guardando il vuoto, in buon italiano.
- Noi... abbiamo del pršut, osò dire a stento la donna, come se le costasse fatica, e krvavica e un avanzo ancora caldo di jota... tabor...
- Samo žganje, hvala, per ora, grazie.
La donna si alzò e diresse verso il banco. Snella e agile ma dal seno possente e solidi i fianchi. Quanti figli può aver fatto? mi chiesi. Versò il liquido in un bicchiere tozzo e opaco, alzò il capo verso la bambina che accorse con un sorriso e, cauta, portò lentamente su un vassoio bottiglia e bicchiere stracolmo che depose sul tavolo, gli occhi brillanti. Sedette di fronte e, posti i gomiti sul tavolo, mi guardava fissa.
Potei osservarla a mio agio. Non era così bambina come avevo ipotizzato; piuttosto, appena adolescente. Dodici o tredici. Pronta, pensai.
- Da dove venite? chiese il vecchio.
- Ho vagato... risposi, ho perso la strada. Io... non so. Mi sono trovato in un bosco. Olmi, frassini, tigli e... due querce. Due querce... strane... Era come se... C’era vento, forte. Non so che cosa ho visto davvero, ma mi è sembrato... come se...
Il vecchio guardava senza espressione. Gli occhi erano fessure e i globi contratti come se i pensieri vagassero insistenti intorno a un centro che solo egli stesso poteva conoscere. Non si fida, pensai. Dove sono capitato?
- Ah, disse, hrasti, le querce... Quelle!
- Hrasti. Quelle.
Il vecchio appoggiò le palme sul tavolo, piegò i polsi massicci e si alzò. Rimase un istante ritto davanti a me, immobile. Un ronzio mi proruppe dietro e sbottò nei rintocchi familiari e imprevisti di una pendola. Le tre. Ascoltavamo i rintocchi come se quei suoni ci precipitassero in una dimensione differente, come se quel luogo entrasse, un colpo dopo l’altro, in una stazione nella quale il tempo sarebbe partito, le macchine sotto pressione, per una nuova direzione, chissà dove, ma la stazione era il presente, e noi stavamo partendo, ed era il luogo nel quale tutti eravamo pronti, dopo una notte di attesa, a qualcosa di nuovo. La Vocazione. Ma che cosa? La realtà si fece solida, la materia più opaca e i corpi più pesanti. Un filo di nebbia si insinuava appena da sotto l’uscio e, fuori, i primi colori timidi dell’aurora annunciavano leggeri la luce incipiente. Sono stanco, pensai. Ma dove mi trovo? Come ci sono arrivato?
Il vecchio mi si pose dinanzi, solido. Ieratico. Sedette. Guardai la donna, fino ad allora immobile dietro il banco della mescita. Compunta, assente, ma si mosse verso di noi, pesante, come se dovesse officiare un rito che solo quei tre conoscevano. Ora li avevo tutti di fronte. Una commissione d’esame.
- Hrasti, le querce, ripeté lentamente il vecchio.
- Le querce, risposi.
- È una vecchia storia, azzardò controvoglia la donna.
- Una vecchia storia, confermò il vecchio.
Guardai la bambina - la ragazza. Assisteva, curiosa, maliziosa, come se un gioco cominciasse, che non aveva intenzione di perdersi. Allungò un braccio e mi carezzò la mano.
- Daj mi steklo, disse il vecchio. Gli fu portato e versò all’orlo il liquido trasparente.
Restammo a lungo a parlare finché la luce del giorno penetrò inesorabile nella locanda e la donna spense i lumi.

Mi alzai tardi, quella mattina. La fatica e le emozioni del giorno precedente mi erano calate addosso come una corazza e dormii a lungo, irrequieto di sogni oscuri: alberi, vento tra i rami, anche sinuose, braccia protese, seni colmi, arroganti e un pene gigante, itifallico, minaccioso e linfa viscida come albume, che colava sulle cortecce disperdendosi come serpi nelle radici. Nel dormiveglia udivo voci, bisbigli, piccoli passi veloci, tintinnare di tazze, risolini soffocati. Vidi, o sognai, la bambina aprire cauta la porta della stanza e avvicinarsi al letto. Percepivo il suo sguardo a pochi centimetri dalla mia faccia osservarmi a lungo e il fiato carezzarmi le palpebre serrate. Sentore dolce di magnolia e aspro di caffè. Sentii o immaginai una carezza sulla fronte, una mano fresca, sottile, titubante, dita leggere come una farfalla girare attorno agli occhi e scendere sul naso. Non avrei voluto svegliarmi ma continuare così. Quando riuscii ad aprire gli occhi, ero solo nella stanza ma la sedia accanto ospitava un vassoio con una tazza fumante e un pezzo di pane e del lardo.
Mi vestii in fretta e scesi, come a un appuntamento. La locanda era deserta e chiusa, l’aria stantia. Come sognato da una immaginazione enumerativa, da fiammingo, il sole del mattino inoltrato sciabolava dagli scuri accostati violentando con oscena meticolosità gli oggetti che via via elencava nella penombra degli altri, oggetti verginelle che preferivano non esibirsi al pubblico della luce violenta. Scricchiolò l’impiantito e cigolò il battente quando mi mossi per uscire dal silenzio irreale della stanza. La bambina era dietro la porta, in attesa.
Silenti, mano nella mano, percorremmo il sentiero che girava dietro le case e s’inerpicava verso la collina, poi un’altra, e un’altra e un’altra ancora, intervallate da doline ora aspre ora in lieve pendio. Il bosco comparve all’improvviso. Olmi, frassini, tigli all’infinito, che salivano e scendevano aderendo ai capricci del terreno, folte le chiome e intricate, impenetrabili come rasta vegetali su corpi tozzi e rugosi. Ci osservavano le piante, l’uomo e la bambina farsi strada serpentina sempre più inoltrati, sempre più nel fitto più ombroso nello spazio esclusivo, riservato, sacro, che non apparteneva a nessuno se non a esse, noi intrusi cauti animali timorosi di violare come in chiesa ad aggirare le punte degli arbusti irti di aculei, leggero il piede sul muschio umido a rispettare le spontaneità dei porcini, bacche frutti colorati e cerchi delle streghe, percorrendo la certezza di un invisibile cammino fino alla fine della storia fino al luogo centrale che, a caso o per destino, avevo percorso, visto o sognato in uno dei miei deliri e che mi aveva gettato in un’angoscia nuova, un precipizio che non sapevo spiegare.
La mano di lei, morbida la carne, appena umida la pelle sottile, irraggiava un tiepido calore che ingigantiva la completezza, la felicità del contatto, i nostri respiri calmi e profondi, come se la reciproca fiducia potesse farci proseguire così per sempre, fino alla fine del bosco e, forse, della vita e non tornare indietro.
Sotto gli alberi amanti, isolati nella breve radura, le querce anelanti dai rami intrecciati, finalmente raggiunte, tra olmi e frassini e tigli... che le difendevano come a pudore dell’anelito amoroso, ci baciammo e fu come se il mondo vegetale si chiudesse su di noi come un sepolcro, abbracciati in una cortina di verde e mettessimo anche noi radici e foglie e fiori e frutti, le nostre metamorfosi.

La pendola rintoccava il tardo pomeriggio nella locanda vuota.
- To bo naša nesreča...
- Ona si zasluži več!
Le voci provenivano a onde di sussurro dal piano di sopra e si perdevano a tratti strada facendo, scivolando per i muri interni, lungo le scale, s’impigliavano negli spigoli dei mobili, dove restavano intrappolate per sempre. Dalla soglia dov’ero, percepivo solo frammenti di una conversazione che pareva accorata o concitata. Perché «questo sarà la nostra rovina»? e di chi? e perché «ella merita di più?» - ella chi? e che cosa?
Chiusi il battente con rumore, per testimoniare la rottura della solitudine e irrompere ancora una volta nelle loro vite. Le voci tacquero e un lento scalpiccio e tramestio di sedie annunciarono la discesa dei proprietari delle voci.
- Dobro jutro.
- Dobro jutro.
- Dobro jutro.
Dunque eravamo tre a fronteggiarci, la donna, il vecchio e io, come se dovessimo stendere dal notaio un compromesso di matrimonio. Mancava la sposa. Sedemmo al tavolo sotto la lanterna fioca davanti ai nostri bicchieri ben colmi di una žganje domestica che rendeva sapori misti di prugne, ciliegie, ginepro, tutti insieme. Tre sapori come noi eravamo tre. L’assenza della ragazza che mi ostinavo a vedere bambina impediva alla grappa di manifestare un quarto sapore, o ero io questo quarto che non c’era?
- Ha molto sofferto, disse la donna. Quando era bambina. Ne porta ancora i segni. Non sarà una buona unione. Perché volete proprio lei?
Osservavo le labbra parlare. Teneva la bocca leggermente piegata, come se una qualche paralisi o ferita ne avesse inclinato il disegno orizzontale. Inchiodava la sigaretta accesa nell’angolo storto e la cannuccia oscillava su e giù come il beccheggiare di una barca su onde regolari. Il fumo le saliva sulla verticale dell’occhio obbligandolo a strizzarsi in continuazione. Una maschera ammiccante. La durezza dello sguardo e dello smozzicare delle parole suggerivano sentimenti contrastanti nei confronti della bambina, come se il desiderio di proteggerla - ma da che cosa? da chi? - dovesse farsi strada, faticando, attraverso quello di liberarsi di lei, come di un peso portato tutta la vita come una maledizione o una qualche promessa strappatale sul letto di morte di qualcuno. Non era sua figlia? Perché ne parlava come se si trattasse di un’estranea, un pacco infante trovato sull’uscio, l’elemento spurio nel quadro ordinato della sua vita? Cercavo di immaginare questo ordine. La locanda, e poi? Era ancora abbastanza giovane e, tutto sommato, piacente considerando i canoni locali, da potersi permettere o coltivare un fidanzato, e forse più di uno. Una certa aria selvaggia - quei cernecchi corti tirati indietro... - le davano un non so che di erotico o di perverso che poteva caratterizzare la sua vita amorosa o, almeno, quella sessuale. Come baciava la sua bocca storta? Forse aveva dozzine di amanti, la strega, e la bambina - la figlia? - un impiccio...
- Le querce vi hanno stregato, disse il vecchio. Dovete stare attenti alle querce. Saranno il vostro destino. Vi avevo messo in guardia.
Il vecchio pareva diverso da ieri. Forse il nonno, nel quadro famigliare che ipotizzavo via via. Morbide le labbra né grosse né sottili, che muoveva avanti e indietro piuttosto che su e giù, sotto il lungo filtro ombreggiato dal naso tondo all’apice e grosso, socratico ma ben delineato. La mobilità dei suoi suoi occhi minuscoli guardava di traverso al centro delle grandi orbite sotto i sopraccigli leggeri e arcuati. Nascondeva qualcosa. Un segreto. Un peccato. La maledizione che stava scontando. Ogni tanto si incrociavano gli sguardi - ed era odio quel che mandava dietro il paravento bonario. Gelosia? E paura e fuga. Abbassò il mento sul collo taurino e tacque. I capelli bianchi ritti sulla fronte alta parlavano per lui.

Riprendevo contatto con quella che sembrava essere realtà. La vita al villaggio prese a scorrere banale e noiosa. Un posto come tanti con facce dure e scure, occhi cerulei e nasi venosi. Da qualche parte un apparecchio diffondeva la vecchia «Brez besed, bova našla se nekje, z roko v roki šla naprej...» - senza parole noi siamo, da qualche parte lo troviamo, mano nella mano avanti andiamo... Sentivamo addosso gli occhi e i pensieri che ci seguivano, neanche fossero della Policija, come l’ombra incollata alle nostre scarpe, che andavano a zonzo a comprare kruh dal fornaio, meso dal macellaio, fino alla minuscola kvadrat del mercato del sabato per paprika piccanti e paradižnik rossi e tondi che, in realtà, profumavano di Sicilia. La bambina contrattava senza parlare, indicando a gesti con pochi diti quello che voleva e ruotando il palmo quando il prezzo non le sembrava congruo, finché otteneva quel che voleva. Allora ridevano gli occhi e i denti e caracollava come l’orso. In altri tempi avresti incontrato il rogo, pensavo. O stavamo ore nella cappella a guardare le figure della danza macabra e contorcere gli occhi e la testa seguendo come in un percorso obbligato le scritte glagolitiche incise sui muri, in attesa di tornare alle nostre querce...
- Smrt priča o življenju... Bog z vami... si italijanski?... volevo dire...
- Sì Padre, risposi. Bog z vami et cum spiritu tuo. Ma si potrebbe anche dire, a rovescio, che la vita testimonia la morte.
- Dunque, abbiamo un laico, rise.
Il mestiere lo portava a voler sapere tutto. Esercitava una buona tecnica, con domande semplici e dirette, che cominciavano sempre con zakaj? perché? mentre eludeva le mie domande con nuove domande. La bambina mi rimase sempre attorta al braccio guardando fisso il prete come a controllarne le parole. Così, potei sapere quasi nulla su di lei, ma non disperavo in un ulteriore incontro, da soli. Si scoprì, invece, sulle querce...
- Per secoli ci siamo impegnati a sradicare il paganesimo dalle nostre campagne, a volte tentando di sovrapporre chiese ai loro templi silvani e sostituire i nostri ai loro riti osceni e perfino inglobare gli dèi nel pantheon dei nostri santi... ma questi contadini sono cocciuti e malfidati. Il socialismo non ci ha certo aiutato. Meno male che ora... Devo dire che... speriamo anche molto nella televisione e nel consumismo tecnologico, una nuova barbarie ma che, almeno, addolciscono coscienze troppo sospettose. La fede vera è potente e non attaccabile se è innocente come un bambino che, meno sa, meglio sta. Sinite pargulos venire ad me... - il suo sguardo carezzò con dolcezza la bambina. E chi sa essere bambino oggi? Sono cose che lei conosce e può capirmi. Tra questi... rozzi è difficile dire la verità... Quelle querce sono prekletstvo, una maledizione. Abbiamo avuto rivolte in passato, anche sanguinose, quando si cercò di sradicarle. Quelle driadi... si dice così? esigevano sacrifici cruenti, pelli di animali e anche di uomini, scuoiati vivi appese ai tronchi, e poi orge sabbatiche e castrazioni rituali e sangue e, mi perdoni... (sussurrò: semenčic) sparsi sui tronchi... Sì, c’è, è vero, una storia d’amore all’origine di quel mito. Ljubezenska zgodba... come dire? rastlinska, sì, un amore vegetale... non la solita ninfa che per salvarsi dal satiro non trova di meglio che diventare pianta.... Se opravičujem, chiedo scusa.
Era successo qualcosa che non avevo percepito, perché s’interruppe, e non ci fu verso di farlo proseguire. Si ritirò rinculando.

Sorriso malizioso si arrampicò sul letto. Giacevo seminudo tra le coperte arruffate, incapace di trovare il giusto equilibrio fra il freddo pungente quando le cacciavo lontano e il caldo soffocante quando me ne ricoprivo. Neve di primavera desiderava sciogliersi al calore del mio corpo. La camiciola leggera lasciava scoperte le spalle e copriva appena il rigoglio acerbo dei seni. Distesa tutta su di me, trasse da non so dove una lunga benda bianca di cotone con la quale mi legò stretti i polsi alla testata metallica del letto e io lasciavo fare, incuriosito ed eccitato dalla sua presenza e dalle sue iniziative. Il biondo dei capelli scese come una cortina sul mio viso, dove nascondermi, da dove traguardare un mondo giallo-oro tra l’una e l’altra ciocca. Mi tolse il poco che avevo e mi percorsero le sue labbra baci leggeri e ardenti, istintivi ma delicati, morsi d’amante e lasciava la lingua tracce umide e calde che raffreddavano la pelle. Impossibilitato a muovermi, mi torcevo passivo sotto i baci e le carezze che mi percorrevano. Affondavo e risorgevo giù e su lungo il pozzo della coscienza per un tempo infinito e solo i nostri piccoli gemiti colmavano sommessi il silenzio della stanza. Ogni tanto, la sua assoluta immobilità consentiva, come se divinasse un quando che non voleva accadesse, un temporaneo riflusso del mio essere profondo nelle caverne del mio piacere che non giungeva a conclusione ma si alimentava più e più di se stesso, in un ciclo continuo e senza fine. Allora i baci tornavano brevi e leggeri e in punta di labbra e le carezze, per un poco, più lievi di ali di farfalla.
- Perché... riuscii a sussurrare.
- Non mi devi toccare, rispose.
I suoi occhi cangiavano colore affondati nei miei semichiusi mentre il suo corpo si torceva sotto lunghe ondate solitarie che consumavano per un breve tempo il suo piacere.

Lo strepito fu improvviso. La porta si schiantò di lato come se il mondo ci fosse crollato addosso tutto e tutto insieme. Intravidi delle figure agitarsi nel vano semiaperto.
- Bom ubil! Bom ubil! gridava il vecchio, vi uccido! Brandiva una roncola con la quale tagliava l’aria mentre mi si precipitava invasato sul letto. Dietro, aggrappata, discinta, la donna tentava di trattenerlo, scivolando, brancandogli le gambe. «Assassino!» urlava e alla ragazza: «shranjen! oditi!» sàlvati, vai via. La bambina balzò dal letto e saltò sul pavimento rintanandosi accucciata in un angolo, occhi sbarrati, la bocca spalancata in un muto, forse antico, terrore. ll peso del vecchio mi soffocava. Mi pressava una mano sulla bocca e con l’altra affondava la roncola a ferirmi il petto. Riuscii con una forza spasmodica che non mi conoscevo a lacerare i legami dei polsi e ad afferrargli la gola mentre la donna, rialzatasi, gli si buttava addosso. «Morilec! Morilec!» piangeva. Assassino! Il vecchio se la scosse di dosso e pur con le mie mani arpionate sul collo le strisciò un colpo di roncola in gola. Rimanemmo immobili e in silenzio. Il tempo stesso si era fermato. Lo stupore affiorò sul suo volto. Vedevo al rallentatore la donna che si afflosciava, scendeva sempre più giù mentre dalla lacerazione esplodeva pulsando sangue nero che ci ricadeva addosso. Con un grido strinsi allora con più forza la gola del vecchio, e me lo rovesciai sotto, sul letto intriso di sangue mentre la roncola mi feriva all’impazzata le braccia. Volevo uccidere. Ero io la Srmt e la vendetta a zanne digrignate. Qualcosa di pesante mi colpì la nuca e il mondo mi svanì intorno mentre rifluivo nel nulla.

Frusciare di rami nel vento e le foglie in chiacchiericcio costante. A volo d’uccello, il bosco tutto là disteso; odore di terra insieme e di verde e di fiori. Eccole le querce, dall’alto, tronchi rugosi, protese l’una verso l’altra come amanti immobili a non stringersi, sfiorarsi le foglie per un abbraccio impossibile. Desiderio di sé inesausto e dell’altro, ma intreccio nelle radici a fondere, nel freddo occulto della terra, due esseri in uno solo, unico, la somma di tutti. Si vedono, vicine, non si toccano che a tratti, quando il vento agita con più forza le braccia nodose e lo sfioramento acuisce il desiderio. Le altre no; vicine, indifferenti. Lo sanno le driadi interiori che quelle due sono diverse. Metamorfosi di un dio? Il corteo si avvia silenzioso in lunga fila, abiti bianchi, fluttuanti nel fresco dell’alba, bende sulla fronte. Belare di agnelli alla cavezza. Capretti di latte tenuti in grembo occhi innocenti, che ascoltano sussurri dalle donne madri. L’evento non deve essere temuto perché ci sia solo stupore quando accade e non pena, non terrore. Il sacrificio rinnova la magia, perché salvi il tempo le querce amanti, altare vegetale all’amore, a tutti gli amori, perché l’amore è uno solo ed è sempre medesimo a se stesso. La visione si allontana, la radura è vuota, le querce ancora non sono. Fuggono due umani ai latrati sempre più vicini e dietro, selvaggio, tutto il villaggio, kurent cornuti del carnevale di morte, feroci di sangue. Cade la donna, l’uomo la rialza. Ricade spossata. E allora basta. Che accada qui e ora e che sia per sempre. Affondano i piedi nella terra, mettono radici. Diventa dura e secca la pelle e rugosa, si spacca. Rami dalle braccia protese e fronde. Vedersi. Per sempre. Vicini. Protendersi. Verso l’altro. Odore dell’altro. Parlarsi delle foglie. Ma mai toccarsi. Mai più.

- To se zaéne znova. On prihaja k sebi.
E mi ripresi, rinvenni. Delirio? Un viso chino su di me, scarno, barba e favoriti, occhialini. Berretto. Divisa. Polizia? Letto di ospedale. Dottoressa in camice, siringa. Cielo alla finestra. Bocca secca, labbra riarse.
 
- Vi ste tujec. Ne more zaupati.
Sì lo so, pensai. Sono straniero. Non potete fidarvi di uno straniero. L’ufficio di polizia era caldo per una stufa in cotto che arroventava l’aria stantia e satura di fumo. Sedevo, ancora dolorante e bendato qua e là nel corpo, attorniato da una poltrona rigida a braccioli, dal grande schienale massiccio e la seduta scura, di cuoio consunto. Un ricordo austro-ungarico che le varie guerre e rivoluzioni avevano salvato. La polizia va preservata comunque.
- Abbiamo motivo di credere... - il suo italiano era stentato ma corretto; ci teneva a interrogarmi nella mia lingua, quasi un dovere di ospitalità; non ero forse straniero? - di credere che quella notte alla locanda si sia consumato un dramma di... ljubosumje, gelosia. Siete stato trovato in quella stanza imbrattata di sangue, il vostro e quello della donna. Forse l’uomo vi ha sorpreso insieme e l’ha uccisa e ha ferito voi. O forse è stata la donna a trovarvi a letto con l’uomo o con la bambina e allora l’assassino siete voi. Ma allora, perché le vostre ferite? E non da poco. Avete rischiato di morire a vostra volta, dissanguato. Dubito che ve le siate procurate da solo, per costituirvi un alibi. Ma dov’è l’uomo? Avete ucciso anche lui? E la bambina dov’è? E quale arma è stata usata?
Non interrogava soltanto me: rifletteva ad alta voce, interrogando anche se stesso. Da buon mitteleuropeo, non aveva certezze. La polizia non aveva certezze, ancor meno di quelle che avevo io. Pian piano, una parola dopo l’altra, un fatto appurato dopo l’altro, il quadro dell’evento tendeva a precisarsi ma lasciando in sospeso molti punti oscuri che galleggiavano intorno. L’assistente ci guardava, senza espressione, occhi d’aquilone, seduto a un tavolino nell’angolo, davanti a una Reminton d’anteguerra che ignorava, soprammobile d’uso sconosciuto. Muti gli aquiloni intenti, per servizio? a seguire l’aggirarsi del superiore intorno alla mia poltrona, o avanti e indietro, o accostarsi alla scrivania per consultare le sue carte e ritornare da me, a smontare e rimontare le sue architetture razionali. Era il medesimo che avevo visto all’ospedale, alto, magro, occhialini senza montatura su un naso semita a stanghette flosce sugli orecchi troppo piccoli per poter predire una lunga vita, e un’aria imberbe pur in mezzo ai grossi favoriti e occhi curiosi, penetranti, onesti e beffardi insieme. Ero io l’oggetto. L’assediato. Solo noi tre nella stanza fumosa, al caldo, in pieno imperial-regio governo: una žganje provvidenziale sulla scrivania alla quale ogni tanto attingevamo, versandone un po’ in bicchieri segnati da impronte lasciate dal tempo. E sigarette e portacenere quasi saturi. Atmosfera amichevole, soffocante. Fuori, potevano anche circolare carrozze e cavalli invece che automobili, per quel che si poteva sapere. I doppi vetri non consentivano il trapassare di alcun rumore e tutto era denso e ovattato e pieno di fumo. Un lontano sentore di crauti testimoniava che eravamo vivi e non stavamo sognando. Accesero le luci. Una lampada verde ministeriale sulla scrivania e un lumetto discreto per l’assistente. A ciascuno il suo. Mi agitai sulla poltrona, attento a non strappare le medicazioni.
- Ho bisogno di sapere io da voi qualcosa di più, dissi. Gli abitanti della locanda, per esempio, chi erano - o chi sono, alcuni di loro? Sono capitato là all’improvviso, quasi sbucato dal nulla. Sì, sono rimasto qualche giorno, ma nessuno parlava mai di sé né degli altri o mai rispondeva. La donna era madre della bambina? C’era un padre? E il vecchio chi era? Un nonno, un parente, un amico? Per quanto ne so, il vecchio ha ucciso la donna e immagino che poi sia fuggito portandosi via la bambina. Li avete cercati? L’arma ve la dico io: una roncola... un falcetto, una piccola srp. L’avete trovata? Forse l’ha presa lui e ora è armato. Potrebbe fare del male alla bambina. Ci avete pensato?
Il funzionario mi guardò in silenzio per un po’ da dietro la scrivania e gli occhiali inespressivi. Io, straniero, ero il vero enigma, non la mattanza da poco consumata. La giustizia aveva le sue regole. Fece un cenno del capo all’assistente che mi si avvicinò e, ponendomi una mano sulla spalla, parlò per la prima volta e disse: «Zaslišanje je končal. Vrnitev v celici». Mai fidarsi di uno straniero, pensai. L’interrogatorio era finito e mi riportavano in cella.

Il cielo pomeridiano era grigio e minacciava pioggia e, forse, dai monti si preparavano a scendere nervose raffiche di bora. Da qualche parte un apparecchio diffondeva di nuovo la vecchia «Brez besed, bova našla se nekje, z roko v roki šla naprej...». Come se la canzone ce l’avesse con lui, il funzionario di polizia se la ripeteva sulle labbra mentre la memoria ricostruiva fatti e parole dell’indagine e salivano i suoi stivali lucenti, lentamente, la strada che portava al centro del villaggio dov’era la chiesa, accompagnato dal brusio degli abitanti intenti a scrutare l’uomo, quasi che da un suo gesto, una parola, potesse manifestarsi un fatto nuovo, rivelatore, insospettato, del gran fatto della locanda. Su questo contava. Come se niente lo interessasse per davvero, aveva scambiato poche chiacchiere con molti, ma discretamente, per carità, da privato, come a voler pettegolare e nuovo destinatario era ora il prete, facendo attenzione a non far capire ai giornalisti la sua vera direzione. La sua cocciutaggine emerita continuava a coltivare la sensazione di qualcosa di vago che gli si aggirava intorno da vicino ma senza farsi mai afferrare e che lo assaliva a tradimento alle spalle, proprio in mezzo alle scapole, su particolari insignificanti, ma non sapeva perché. Un problema. Una partita ahimè iniziata, da portare a compimento. Così, proseguiva quasi a caso, confidando nella suggestione, come la patella nella sua area di pascolo o un giocatore di scacchi che non ha mai imparato la difesa siciliana. Farsi suggestionare... da che cosa? Gli abitanti erano il suo gregge, da condurre e controllare. Li conosceva tutti e sapeva, uno per uno, come chiedere. Aveva spigolato piccole cose, cenni vaghi, parole smozzicate dette con cautela perché sempre di polizia si trattava e si doveva stare attenti, combattuti fra il desiderio di dire di più per saperne di più e dire di meno per non essere compromessi. Luci soffuse, che aggirano gli oggetti, luci multiple, che dànno ombre contrapposte o poco deviate, mentre serviva la luce unica, quella che innonda le cose da una sola sorgente e rende un’immagine univoca, che spiega tutto. Questo cercava. Ma esisteva, questa luce unica? La sua esperienza di funzionario di polizia gli diceva di no; ma i giudici vogliono questa luce che non c’è. Perciò insisteva, costante, un passo dopo l’altro, sapendo che il suo mestiere non consisteva nell’illuminare gli oggetti, ma solo di porli in una “certa” luce, che rendesse un’immagine almeno verosimile, a soddisfare giuria e apparato. E il vero, dov’era? L’inseguimento non aveva fine, come la vita. Meglio non pensarci e proseguire.
Si fermò alla fontana pomposa di un passato imperiale in quel villaggio dimenticato. Lavò gli occhialini con cura sotto lo scroscio freddo e li asciugò nel fazzoletto candido. E allora inforchiamoli, e continuiamo, si disse, le eterne battaglie degli occhi, a estrarre paziente dalle pupille parole non dette, vere intenzioni, sfumature espressive, gesti inconsci. Una tessera dopo l’altra, ma il mosaico non era mai completo né gli incastri combaciavano perfettamente. L’isteria della stampa già faceva del suo e la televisione aveva diffuso tutto il possibile insieme con l’impossibile. Ogni giorno un nuovo colpevole e il giorno dopo un nuovo mistero. Le vite di tutti rivoltate come un guanto e la febbre, questa febbre dello spettacolo più che della verità, che gli mordeva la bocca dello stomaco, continuava a salire e gonfiare e travalicava i confini del villaggio, oltre le case annerite e i comignoli posti come sentinelle, su per i campi a distesa e per le valli tra i boschi traboccanti di vita e giù per le doline salmastre, e che però rallentava, rallentava, sempre più lenta e pesante come se l’isteria umana non potesse toccare questa energia assoluta, fino a fermarsi, rispettosa, ai bordi della radura, immobile come un cane alla cuccia, lingua fuori, fissa a guardare là dove non poteva proseguire perché era degli umani, non dei vegetali, là dove le querce amanti continuavano a stormire indifferenti eterne parole d’amore solo per se stesse: «Brez besed, bova našla se nekje, z roko v roki šla naprej...».
Bussò alla porta della canonica.

La cella sapeva di calce fresca; alcuni graffiti forse ribelli dovevano essere stati da poco grattati via e le pareti rimbiancate. Al di sotto, come analizzando il bouquet complesso di un buon Tokaji, mi esercitavo - occupazione da prigionieri - a percepire sentori permanenti di muffa e di orina stantie che la calce nascondeva ma non cancellava.
La porta si aprì con uno scatto e l’acido esterno dei crauti venne ad aggiungersi al bouquet interno. Una figura si stagliava sulla soglia in controluce. Una voce da dietro disse «odvetnica» e la figura entrò. La donna mi guardò un istante arricciando il naso, poi mi venne incontro tendendo la mano. Era il mio avvocato d’ufficio.

- Non ci sono prove contro di voi, diceva. Derubricheranno l’incriminazione a testimonianza e non vi tratterranno ancora per molto. La scomparsa del vecchio, forse con la bambina, è un indizio solido sul quale stanno lavorando. Fanno delle battute intorno al villaggio e perquisiscono qualche casa. Finora niente. I pettegolezzi sono tanti. Vi hanno visto spesso in giro con la bambina per mano, nel villaggio, nella campagna. Parrebbe quasi che il mostro siate voi... Ma si sa qualcosa anche degli altri della locanda. Quella coppia era molto chiacchierata e mal vista dalla popolazione, o vista con sospetto. Non parevano di qui o erano di quelli vissuti per generazioni nei campi, nei boschi, dei quali non si sa nulla finché non compaiono come alieni o creature della natura, a ritagliarsi la propria fetta di spazio nella comunità. Ogni tanto succede ancora. Alla locanda non andava ormai quasi più nessuno e non si sa di che cosa, veramente, campassero. Si dice che egli avesse commesso dei crimini durante la guerra e anche dopo, come una scia di vendette, denaro rubato, molto denaro... Un violento, un padre-padrone. Della donna si dice che fosse la figlia del vecchio e altri dicono la sorella ma i più non hanno idea anche perché non ci sono documenti di identità da nessuna parte. Come se nessuna anagrafe li registrasse. Ci sono stati molti incendi negli archivi... Si sospetta anche che abbia ucciso e nascosto il marito o il compagno, non si sa con quanta complicità dell’altro... Voci. La bambina è il vero mistero. Era quasi sempre muta, non dava confidenze. Riservata e come impaurita, come vivesse un segreto, come se nell’infanzia avesse conosciuto duramente solo il male e su questo avesse costruito il suo cammino verso l’età adulta. Potete immaginare come. Intelligente, e molto, ma a scuola faceva davvero poco. Il minimo. Per il resto, non usciva quasi mai dalla locanda, tranne quando la donna la portava in chiesa. Solo con voi, pare, si era aperta recentemente e l’hanno vista ridere... sembrava diversa...
Mi sedeva accanto sulla branda con i ginocchi accostati appena coperti da una gonna di buona qualità. Vestiva sobriamente ma con eleganza, troppa per come immaginavo un avvocato d’ufficio. Poteva avere quarant’anni. Snella, occhi scuri, sopracciglia folte, una massa di capelli grigi con qualche onda ancora nera. Labbra lunghe, dal taglio squadrato, ben disegnate, come una firma apposta in calce, dritta e senza svolazzi.
Voleva sapere di me, chi ero, come avevo vissuto, perché fossi arrivato qui. La mia reticenza non la ingannava e sembrava capire quel che nascondevo, come se mi leggesse dentro. Allora sorrideva aperta, gli occhi brillanti, e mi disarmava. Mi confidai con lei come non avevo fatto con la polizia né con nessun altro, nemmeno in passato. Avevo bisogno di parlare con qualcuno per uscire da quell’incubo. Veniva a trovarmi spesso, in quei giorni di fermo di polizia. Il suo profumo, discreto, svaniva sùbito nelle muffe ureo-calciche della cella, ma non altrettanto la sua presa su di me...
Mi fidavo. Dissi le mie paure, i miei deliri. Il girovagare alla ricerca di qualcosa che non sapevo, che non trovavo, e che sembrava sempre più in là di dov’ero arrivato. Le querce immaginate in sogno, in molti sogni, sempre più sovente, fino a “quelle” querce, viste come in un altro sogno ma con il peso auto-evidente della verità, quando arrivai alla radura e dissi allora del senso di panico orgiastico e di benessere insieme e di liberazione a polmoni pieni, e dell’entusiasmo come posseduto da un dio, come se quel posto fosse mio o lo fosse stato un tempo, un’altra vita, o fosse il mio destino. E parlai della bambina, della nostra intesa immediata, fino alle nostre carezze infantili, i piccoli baci sulla bocca chiusa. Stavo vivendo, dissi, come una regressione della sessualità, che progressivamente si stava adeguando a quella della bambina. Un corpo solo per l’esterno, da non violare e il divieto di toccarle la pelle nuda. Non provavo più desiderio, né pulsione, se non di tenerla fra le braccia, coccolarsi a vicenda sussurri d’amore. E poi di quella sera, quella notte, quando rivelò una sapienza sessuale forse istintiva ma da donna adulta, che sa quel che vuole e come ottenerlo. Carezze infinite sì e snervanti ma sui vestiti, mentre per sé riservava un accesso completo al mio corpo. L’esaltazione mai provata di sentirmi legato, passivo... Il suo terrore per lo sperma e per il sangue, quella cosa che scivola e sporca, diceva. Si lavava in modo ossessivo. E... sì, era vero. Eravamo innamorati... a modo nostro, sì, ma innamorati.

L’avvocatessa mi scortò fuori dalla stazione di polizia, l’ultima sera, una sera fredda che ricordava la notte dell’inizio. Ancora quel vento subdolo che si insinuava sotto i vestiti e seccava la pelle, nonostante un inizio di pioggia. Muovemmo verso il villaggio. Le strade erano buie tranne qualche lampione che illuminava se stesso. La casa del prete non era lontana, appena girato l’angolo della chiesa. Pochi passanti infreddoliti, fantasmi chini a proteggersi dal vento e dalla pioggia ancora leggera ma insistente. Non ci vide quasi nessuno. Il prete venne ciabattando ma aprì solo quando riconobbe attraverso la porta il nome della mia accompagnatrice. Era rosso in faccia e il naso gonfio e venoso dimostrava di aver bevuto e non poco. Quasi barcollò quando si spostò per farci passare. Il piacere solitario, pensai, con Žganje, l’unica femmina che non tradisce...
- Dobro jutro, Padre.
- Dobro jutro, figlioli. Che posso fare per voi?
L’avvocatessa era una pantera. Scovava le tracce dove io non vedevo nulla, le seguiva senza mollare per poi saltare addosso a un’altra, che ci portava ancora più avanti a completare quelle precedenti. Il prete era a suo agio. Comodo e caldo in poltrona, noi sul divano di lato, egli grato della rottura della solitudine che altrimenti lo teneva attonito alla televisione, letto il giornale, consumata la cena, e qualche bacio a lingua in bocca con la signora Žganje... E l’avvocatessa aveva fascino: era bello guardarla.
Le parole infittivano l’aria. Ricordi. Gioventù. Il padre, patriota, anni Venti, quando i terroristi anti-italiani cercavano di salvare l’identità nazionale e la lingua, la storia, l’avvenire. La grappa aiutava, perché più raccontava, più beveva. Non molto, ma da intenditore. Sorsetti corti, da bagnare appena le labbra e attorcigliare poi a lungo il sapore fra lingua e palato con brevi schiocchi discreti per areare l’incavo, ma il suo litro era quasi vuoto e i nostri bicchieri ancora colmi.
Il mio sguardo errava per la stanza chiedendomi perché fossi qui. Disadorna di pochi massicci mobili contadini, vecchi e tracciati da generazioni di preti e di perpetue. Traversa di pizzo macchiata, posta di sbieco sulla tavola, supporto morbido a una brocca di fiori finti, casomai rigasse il legno. Sedie allineate al desco come soldati. Pochi oggetti sui mobili. Calendario. Una foto grigia e scolorita alla parete. Mi alzai a guardare. Un grosso barbuto d’anteguerra (quale?) in poltrona da studio fotografico, teneva abbracciati ai fianchi due bambini e una bambina accoccolata sui ginocchi. Sembrava un fabbro che custodisse gli arnesi da lavoro: la medesima attenzione e il medesimo senso di proprietà e possesso.
- Ali lahko? posso? chiesi prendendola arrogante e portandogli la foto. To je ti? siete voi? Ammutolì e mi guardò stupito, come se avessi rubato.
- Posso guardare? chiese l’avvocatessa. Vostro padre e i vostri fratelli, vero?
Si incassò nella poltrona, gli occhi chiusi, le spalle cadute. Scendevano lacrime da quel viso. Ci guardammo ammutoliti. Il momento sembrava eterno e come sospeso. Gli accarezzò una mano. Il prete balzò in piedi ghermendomi la foto e tenendola tremante. Ci guardò come spiritato e cominciò ad agitare la foto nell’aria. Un flusso inarrestabile di parole veloci incomprensibili in un dialetto sconosciuto. Gridava. Inveiva. Poi tacque e ripiombò sulla poltrona, la foto in grembo. Palpebre chiuse. Respiro affannoso. Il nostro imbarazzo cadde come piombo. Ma forse era quello il momento.
Piano, sottovoce, lentamente ricominciò a parlare. Piangeva ma non singhiozzava.
- È colpa mia, disse. Tutta e solo colpa mia - e si sentiva che c’erano, in quella, tutte le colpe del mondo. Non sconterò mai abbastanza questa colpa. Io, stupido, pauroso, succubo e vile. Sono diventato prete per questo, ma il tormento non è finito. Mi ha aiutato, fare il prete, e ho cercato, ho cercato di espiare, di fare del bene, chiedetelo in paese. Tenevo nulla per me. Ma è stato inutile.
A mano a mano la voce diventava più ferma e chiara. Non lacrimava più. Confessava. A chi può confessare un pastore se non al suo gregge?
- Papà stava con i terroristi. C’era molto idealismo, allora, ma anche ferocia. Lo ricordo come un sogno ma di quelli che non si dimenticano. Teneva nascoste per loro armi e dinamite e noi lo aiutavamo. Una dolina poco lontana, quasi invisibile. Nascondiglio perfetto e non fu mai trovata. Era un gioco. Bambini che giocano alla guerra. Poi, nel Quarantatré il gruppo si sciolse e alcuni passarono con i partigiani nazisti che volevano le nostre armi, il deposito. Rifiutammo perché c’erano anche molti anarchici tra noi e noi si stava con quegli altri. Questi avevano molti soldi, un flusso continuo di marchi-oro che veniva dalla Germania. Volevano il deposito anche per nascondere i soldi. Ci fu una strage, un massacro. Non ce l’ordinò nessuno. Un’iniziativa nostra. Li scannammo tutti in un’imboscata a colpi di mitraglia. Partecipai con mio padre e mio fratello. I cadaveri li infoibammo poi dove possibile, di notte, una notte che ricorderò sempre. Non furono mai ritrovati. Ma il denaro è rimasto. Non l’ho mai toccato. Mio fratello...
- Quello della locanda, disse l’avvocatessa guardandomi.
Parve non aver udito e continuò.
- Era diverso. Duro, come il babbo. Violento. Mi teneva sotto. Obbedivo e non mi ribellavo. Solo mia sorella... Oh, con lei era... Stava dalla mia parte ed era la sola che potesse tenerlo a bada con un’occhiata. Nelle campagne eravamo sempre soli. Ci facevamo compagnia. Ci chiamava “i fidanzati”... con disprezzo, sarcasmo e minacciava di dirlo in giro... Quando nacque... quando nacque tenemmo tutto segreto, ma da allora era come se ci fossimo consegnati nelle sue mani.
- La bambina della locanda, disse l’avvocatessa, e ancora mi guardò come a darmi conferma. Ero inorridito e senza parole. La mia bambina... Mi accasciai su una sedia, lontano da loro, la testa fra le mani. Il gorgo dei miei deliri era ritornato a prendermi, a stringermi il petto, a trascinarmi giù turbinando verso il nulla fluttuante che ben conoscevo. Sapevo di essere finalmente arrivato al punto di snodo, la svolta della mia vita e non perdevo una sola parola, che inchiodavo nella memoria. Poca cosa, la mia vita. Ma ora...
Il prete continuò. Non era più possibile fermarlo. Per troppo tempo aveva nascosto, si era tenuto nascosto, si era nascosto a se stesso. E ora la confessione era piena, circostanziata. Date, luoghi, fatti. Quando decise di farsi prete, avrebbe voluto dire della dolina e del tesoro e del massacro. Ma sarebbe venuto fuori anche tutto il resto. Non poteva per la sorella, per la bambina. Il fratello lo ricattò, beffardo e insultante. Li ricattò entrambi; anzi, tutti e tre. Pretese le donne per sé come ostaggio, garanzia che il prete non avrebbe parlato. I marchi nazisti erano stati cambiati per vie occulte note a lui solo. Aprì la locanda...

- Cosa... dissi. Cosa ha fatto... alla bambina?
Non rispose.

Uscii come un pazzo sotto la pioggia che ora cadeva sferzante, invano richiamato indietro. Sapevo. Sapevo dov’era. Sapevo dove si nascondeva e dove teneva la bambina. Riaffondargli i pollici sulla glottide grassa e spingere, spingere, spingere... Salvare la bambina, fuggire... non sapevo dove. Ma sapevo dove andare. Conoscevo la strada. Corsi verso la dolina. Piangevo. Incespicavo. Gridavo.

C’era. Era là, accucciato nella tana come una volpe in attesa, a fiutare l’aria. La bambina era con lui. Mucchio di stracci su un pagliericcio terroso accanto alla lanterna cieca. Mi vide. Gridò e volle corrermi incontro, ma lui la strattonò di lato. Preklet! gridò, maledetto. Ti uccido! La roncola ruotava nell’aria. D’istinto caricai a testa bassa e lo travolsi al suolo. Non so come, resistetti alla sua forte massa e lottammo rotolando avvinghiati, la roncola saldamente tenuta da entrambi. Una fredda calma calò su di me. Vedevo come rallentati i suoi movimenti, ero sempre un istante prima di lui a colpire, un attimo prima a schivare, finché vidi un passaggio, chiaro, netto, nella sua difesa. Era qui che mi aspettava, aspettava la mia azione. Con un grido gli piegai il gomito e la roncola affondò nella gola grassa e molle come nell’acqua. Il porco si dibatteva. Lo tenni inchiodato al suolo finché con gli ultimi spasimi anche il sangue cessò di pulsare all’esterno. Mi rialzai come in trance. Avevo vinto. Avevo ucciso. La vendetta, la mia vendetta, era mia.
Corse fra le mie braccia insanguinate, ma fu solo per un istante. Non piangeva, il ciglio asciutto. Udivamo, fuori, le grida dei battitori alla nostra inevitabile ricerca. Le voci ci chiamavano. Afferrai la bambina e fuggimmo verso il buio, verso il bosco, verso le querce, le “nostre” querce. Ora come allora.

Fuggono due umani ai latrati sempre più vicini e dietro, selvaggio, tutto il villaggio, kurent cornuti del carnevale di morte, feroci di sangue. Cade la donna, l’uomo la rialza. Ricade spossata. E allora basta. Che accada qui e ora e che sia per sempre. Affondano i piedi nella terra, mettono radici. Diventa dura e secca la pelle e rugosa, si spacca. Rami dalle braccia protese e fronde. Vedersi. Per sempre. Vicini. Protendersi. Verso l’altro. Odore dell’altro. Parlarsi delle foglie. Ma mai toccarsi. Mai più.

Roma, 29 novembre - 23 dicembre 2011  

3 commenti:

Anonimo ha detto...

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