venerdì, luglio 17, 2009

Primi appunti dal viaggio in Giappone

Aria.
A Tokyo è pulitissima, senza inquinamento, con traffico scarso. Tutti viaggiano sottoterra o in bicicletta.

Bagno.
Divino. Collettivo. Tutto di legno. Ti insaponi prima nell'antibagno con doccia o gettandoti dell'acqua addosso da un mastello. Poi ti immergi nella vasca nell'acqua sempre calda e ci puoi stare per ore, conversando.

Cicche.
A Tokyo non si fuma per strada se non negli spazi designati dove si affollano persone che pipano con aria complice e un po' colpevole; si fuma però al chiuso: non è una legge anti-fumo ma anti-cicche, per evitare quegli osceni mozziconi spenti abbandonati sul marciapiedi... Puoi però fumare accoccolato all'aperto se hai un portacenere portatile con coperchio a chiusura di sicurezza.

Cortesia.
Ti accompagnano dove hai bisogno di andare, se le spiegazioni non ti bastano. Non è amore per lo straniero, ma il bisogno di fare bella figura come nazione perfetta e inimitabile.

Cultura.
Tra tutte le culture di modello capitalistico (cioè tutte, tranne gli indi amazzonici, gli aborigeni australiani e poche altre), il Giappone ha quella più diversa e perciò misteriosa.

Guanti.
Tutti gli addetti ai servizi li portano, dal macchinista del treno al controllore, dall'autista del bus al tassista al poliziotto. Anche qualche commerciante. Sono bianchi di cotone. Sempre immacolati.

Immondizia.
Non c'è. Avendo eliminato i cestini per strada per paura del terrorismo post 11 settembre, chi produce oggetti di risulta se li mette in tasca e li porta a casa o, se ha fortuna, li deposita nel primo cestino nascosto in metropolitana.

Inchini.
Sempre. Ogni volta. Differenziati (ma noi barbari non sappiamo interpretarlo) a seconda del rango degli interlocutori e delle cose che vengono dette o scambiate.

Puntualità.
Per chi è abituato al quarto d'ora accademico o alla mezz'ora romana o all'ora sindacale, è una sorpresa piacevole ma anche preoccupante. Non guardare il numero dell'autobus che arriva, ma guarda la tabella oraria appesa alla palina. Il ritardo medio annuo dello Shinkansen è oggi stimato in circa 6 secondi... oggetto ogni anno di profondi inchini di scusa in televisione da parte del direttore delle ferrovie - e sei anni prima il ritardo era di ben 18 secondi. Imperdonabile! Con questa progressione, tra altri sei anni arriverebbe in anticipo. Come si ottengono questi risultati? Forse perché la società è - a che prezzo? le nostre categorie non valgono in Giappone - ordinata e coerente e ciascuno si preoccupa del bene comune non perché ami gli altri ma perché questo è il suo dovere etnico...

Ragazze.
Queste nipponiche mi fanno impazzire, anche con denti a zappa irregolari, gambe storte e sedere basso. Minute, snelle e con piccoli seni, fianchi stretti che non ancheggiano, propongono dolcezza, fragilità e sottomissione ma l'occhio mongolico porta un aspetto felino, con sguardi sottili spesso duri e penetranti. Gli zigomi alti fanno la pelle tersa tesa quasi levigata, senza borse almeno da giovani, né pieghe ai lati degli occhi e con nasini dritti e delicati, capelli a caschetto di seta nera che qualcuna tinge di beige per sembrare internazionale. Le labbra estroflesse, a volte con il superiore sollevato e capriccioso, invitano a frapporci con dolcezza ed emozione la lingua. I vestiti sono però dolorosi: è di massa lo stile idol da bambola, con volants e gonnelle inguinali, calzerotti tesi fin sopra il ginocchio ché ogni coscetta sembra un prosciuttino, tacchi impossibili sui quali le dragueuses non sanno camminare (sospetto piedi piatti), specialmente con quel vezzo di tenere all'in dentro le punte dei piedi a evidenziare lo storto, per infantilità o adesione a qualche modello manga. In una società assolutamente maschile, non hanno forse altra risorsa che apparire desiderabili e in effetti, a parte le mascherature kitsch/trash e qualche larga faccia porcina, e nell'insieme del loro voler apparire finte, sono del tutto appassionanti.

Silenzio.
Tokyo è silenziosa come una cittadina di campagna. Non si sentono nemmeno le sirene della polizia e delle ambulanze. Per non disturbare?

Timidezza.
Soprattutto dei tokyoti (o si dice edokko?) che hanno fama di freddezza. Pare che altrove siano più normali. Mai esprimere un'opinione personale, aiutati in ciò dalla pedagogia ufficiale che vuole che sappiano ma non pensino o, se pensano, che non lo facciano sapere.

Giovedì 23 aprile. Narita, Tokyo.
All'aeroporto di Narita il primo impatto è con la macchina del bancomat, tutta scritta in giapponese finché non si trova il tastino English. Medesimo problema, poi, nelle metropolitane: a volte i tabelloni delle stazioni di destinazione, che informano sulle tariffe, sono solo in giapponese: ci si aiuta con la grafica della cartina per localizzare la meta con il relativo prezzo; non dev'essere facile nemmeno per i giapponesi, se a ogni uscita dai cancelli c'è uno sportello "fare adjustement" per regolarizzare la tariffa. Seconda tappa aeroportuale, il noleggio dei telefonini che qui funzionano con diverso standard. Infine, il nostro treno per Tokyo, destinazione Ueno, che ci mette 80 minuti (da considerare per il ritorno, per non perdere l'aereo). E' un espresso anomalo: a volte salta qualche stazione ma tende a farsele tutte. A Ueno si cambia per la linea Ginza fino al vicino capolinea Asakusa dove abbiamo l'albergo. Asakusa è la shitamachi (città bassa) di Tokyo, a nord-est del centro città, accanto al fiume Sumida. Località antica, tranquilla, già luogo malfamato per i molti teatri e per il quartiere Yoshiwara a luci rosse. Ora i centri del divertimento sono altrove. Appena fuori dalla metro, c'è il primo punto di fumo libero, ideale per chi non fuma da circa 18 ore. Trovare l'albergo non è facile nonostante la mappa dettagliata. Alla fine, dopo aver fatto invano più di una volta su e giù (si sa che il nome delle strade è quasi inesistente e che non esistono numeri civici come li intediamo noi), chiediamo a una ragazza che ci conduce, gentilissima, fino all'ingresso del ryokan prenotato, Shigetsu. Stanza doppia alla giapponese (futon su tatami) con latrina in camera ma bagno giapponese al piano. Via le scarpe, dentro le ciabatte di dotazione, toeletta veloce, via le ciabatte, dentro le scarpe e fuori verso il tempio.
Superata la rossa porta Kaminari-mon (cancello del tuono), con al centro una gigantesca lanterna di carta rossa, che introduce già nella zona del tempio buddista Sensoji/Kannon guardata dalle statue di Fujin, dio dei venti, e Raijin, dio del tuono, ci si addentra nella Nakamise-dori (letteralmente: dentro i negozi), affiancata da negozi di souvenir e cibo tutti i tipi, entro una folla compatta, fino alla Hozomon (porta del tesoro) che introduce al tempio vero e proprio. Dopo un vialetto affiancato da trespoli con lanterne di carta, s'incontra l'incensiere centrale, O-koro, il cui fumo purifica e guarisce. A lato, il gioco delle sorti: si agita una scatola contenente bastoncini segnati, se ne prende uno a caso e si apre il cassetto corrispondente dove una striscia di carta reca scritto il destino; la striscia verrà poi annodata su una rastrelliera dove rimane fino al giorno dopo quando un inserviente s'incarica di toglierle e bruciarle tutte per far posto alle sorti del giorno dopo.
Questo tempio, ricostruito dopo la seconda guerra, è il più antico di Tokyo (VII secolo), fondato per custodire il simulacro aureo del dio o dea buddista della misericordia, Kannon, pescato nel fiume, e che dicono sia sotterrato dietro l'altare principale, anche se nessuno può, pare, attestarlo. A lato del tempio le abitazioni dei monaci e la grande pagoda a cinque piani circondata da, pare, un bellissimo giardino con fiume e laghetto, il tutto assolutamente chiuso, quanto meno, ai turisti. A lato del tempio, innumerevoli altari in parte buddisti in parte scintoisti, con l'immancabile vasca d'acqua corrente che scorre da una grossa canna di bambù, dotata di mestoli per bevanda e lustrazione.

A pomeriggio inoltrato, Paola soffre di un po' di mal di testa e si addormenta sul futon, mentre Ingo incontra la figlia, qui per studio e lavoro, con la madre Adriana. Prima tappa, un negozio di elettronica presso alla stazione Tokyo per acquistare una macchina fotografica per Paola, una Canon sottile la metà della mia ma con il doppio di mega pixel. Poi una lunga camminata per Chiyoda Marunouchi a vedere il Tokyo International Forum (Tōkyō Kokusai Fōramu), opera eccelsa dell'uruguayano Rafael Viñoly. Indescrivibile per bellezza, forza ed eleganza, è palazzo di mostre, congressi e auditorium. Poi, a notte, allo Shiba Park fino alla Torre di Tokyo (Tōkyō-tawā), replica della Tour Eiffel parigina (idiozia pura, ma anche questo è il Giappone), ma più alta (costruita su una collina...).
Infine, a Shibuya per mangiare shabu-shabu e sukiyaki. Qui servono precisazioni. Lo shabu shabu consiste in fette trasparenti di maiale calate in un leggero brodo bollente di verdure. Il sukiyaki riguarda invece manzo, sempre sottilissimo, bollito all'istante in salsa di soya, zucchero e saké, verdure e tofu, condito poi nella ciotola personale con uovo crudo. I piatti si preparano istantaneamente sulla tavola, dove un fornello continua la bollitura dei brodi. Si afferra con le hashi (bacchette, bastoncini) la fettina di carne del caso, la si cala nel brodo di competenza e dopo poco la si ripesca per intingerla nella ciotolina sempre di competenza, dove giace un po' di salsa di soia o di salsa di sesamo, a piacere. Una scorpacciata. Prima del pasto dire all'inserviente "itadakimasu" (ricevo ringraziando) e "gochisosama-deshita" (grazie per il pasto) quando si esce dal ristorante.

Venerdì 24 aprile. Tokyo.
Giornata grigia, promette la pioggia. Sveglia tardi con colazione occidentale allo Starbuck dove si può anche fumare. Poi ci si divide: Paola in giro da sola e Ingo di nuovo con Anita Luna, con lunga camminata verso i giardini del palazzo imperiale che però sono chiusi di venerdì, fino al pranzo in un vicino locale famoso per i ramen (spaghetti) in brodo di carne o pesce e verdure. Il locale è di quelli semi-automatici: superata la fila lunga e ordinata di avventori che aspettano il loro turno all'esterno, una macchina presenta nomi e immagini dei piatti offerti dalla cucina, si infilano i soldi e si preme il bottone, ricavandone un biglietto da presentare all'inserviente. Dopo pranzo Anita Luna va a scuola dove rimarrà fin verso le 17, mentre Ingo accompagna Adriana a casa per cercare il passaporto della figlia: le serve per la proroga semestrale del permesso di soggiorno per studio, e non ricorda dove lo ha messo. Corsa in metropolitana da Suidobashi Jimbocho sulla linea Chuo fino ad Akihabara e poi sulla linea Yamanoto fino a Tabata e infine in autobus fino a casa, nella zona di Odai, La casa è graziosa: un edificio moderno di tre piani sicuramente non anti-sismico che sembra fatto di cartongesso, su a nord vicino al fiume Sumida, con giardini poco lontano. Due stanze con cucina e terrazzino dove c'è (gran lusso) addirittura una lavatrice: la maggior parte dei giapponesi pare che lavi a mano con acqua fredda o si rivolga alle lavanderie a gettone. Perquisizione della casa fino all'agognato documento, che Adriana va a consegnare.

Più tardi, riuniti, Paola e Ingo passeggiano per Ginza, il quartiere dello shopping. Nuova vista, questa volta insieme, al Tokyo International Forum. Le luci del tramonto gli dànno un'aria fiabesca. Spedizione per localizzare il teatro Kabuki, con qualche errore di orientamento, finché eccolo, maestoso, tradizionale, facciata tutta di legno coloratissimo. Si cena poi ad Asakusa, in un locale di sushi niente male. Ingo sperimenta poi il bagno giapponese ottenendone grande delizia.

Sabato 25 aprile. Tokyo.
Pioggia ininterrotta tutto il giorno. Colazione giapponese in albergo entro le nove, ben salata, con pesce, riso, sottaceti... poi Ingo va con la figlia a pranzo con un vecchio amico giapponese in un grande albergo di Asakasa-mitsuke che ha "all'interno" un enorme giardino giapponese con una poderosa cascata che imita, più in piccolo, quella di Niagara... L'amico ha 72 anni ma ne dimostra decisamente molti di meno: imparentato con la famiglia imperiale, in pensione dal rango diplomatico, risposato con una moglie più giovane, torna in Giappone (Tokyo la chiama sistematicamente Edo...) solo in primavera per vedere la fioritura dei ciliegi. Il pranzo è ovviamente di ottima qualità e il servizio alla pari con il pranzo. Per orgoglio di padre, c'è da riferire che l'amico rimane stupito dalla fluenza in giapponese mostrata da Anita Luna, senza inflessioni "barbariche" - si sa che i giapponesi sono molto sciovinisti e ritengono tutti gli stranieri stupidi, rozzi, potenzialmente criminali e incapaci di adottare il loro stile di vita... Così, la invita a maggio nella sua casa di campagna e promette di metterla in contatto con una vecchia depositaria di tradizioni nazionali e con qualche docente universitario. Anita Luna merita tutto questo e anche molto di più. Si vorrebbe fare un giro per lo straordinario parco privato, ma la pioggia non lo consente.

Più tardi, con Paola, a rivedere (lei) il parco di Ueno (Ueno-koen), ovviamente sotto la pioggia. E' uno dei parchi più belli, dove i giapponesi si dànno convegno in pic-nic all'equinozio di primavera per il hanami, la contemplazione degli alberi in fiore. C'è un grande lago (Shinobazu-ike) pieno di canne e la solita isoletta centrale alla quale si arriva su una lingua di terra. Tutto intorno, i grattacieli della Tokyo moderna, come una barriera spettacolare. Pieno di musei, da quello nazionale a quello dell'arte orientale, da quello della scienza a quello dell'arte occidentale, progettato da Le Corbusier, a molti altri, fino a quello, che visitiamo, di storia della vita quotidiana nel quartiere Shitamachi di Edo; il parco contiene anche la famosa statua di Saigo Takamori (quello del film "L'ultimo samurai" dove, chissà perché, viene chiamato Katsumoto) immortalato in abiti civili mentre va a spasso con il suo cane: forse, nonostante fosse stato riabilitato, il fatto della rivolta tradizionalista dei 400, massacrati da 300.000 regolari, bruciava ancora alle gerarchie militari... Continua a piovere e il museo Shitamachi è a due passi, con ricostruzione di abitazioni popolari dell'epoca Edo e, al piano superiore, mostra di giochi tradizionali per bambini e non. Ci impegniamo con successo in un paio di essi.
È più o meno smesso di piovere e si torna a Ginza per assistere a un atto di una rappresentazione di Kabuki. Fila di circa un'ora per soli posti in piedi, in piccionaia, ma ne è valsa la pena, anche se la scenografia si rivela più povera di quanto atteso. Ma la storia è aggraziata, s'indovina poetica e anche umoristica - Paola affitta l'earphone con la traduzione in inglese ma, anche senza, a Ingo sembra di capire quasi tutto. Si assiste a Kuruwa Bunsho, la storia di un giovane spendaccione diseredato dalla famiglia che corre a consolarsi presso la fidanzata, una famosa cortigiana, fino alla riabilitazione e alle nozze finali. Cena giapponese di tipo ultra popolare a Shinjuku, non lontano da Ichigaya, il quartiere a luci rosse e da Shinjuku ni-chome, dove pare viva la più famosa comunità omosessuale del Giappone.

Domenica 26 aprile. Kyoto.
Tempo ancora grigio ma per ora non piovoso. Si parte in Shinkansen per Kyoto, il treno-proiettile (dangan ressha) che percorre a caro prezzo i circa 500 km (come Roma-Milano) in 2 ore e 20 minuti con tre fermate intermedie... A un certo punto del viaggio arriva il controllore, ovviamente in guanti bianchi. Apre la porta del vagone e s'inchina ai passeggeri prima di fare il suo giro, e a ogni controllo del biglietto segue un altro inchino. Arrivato alla fine del vagone, si volta verso i passeggeri e s'inchina di nuovo prima di scomparire nel vagone successivo. Sul treno Ingo traccia una veloce mappa dei luoghi da scegliere, nell'impossibilità di vedere tutto, e ne trascura di importanti.
E dunque, puntualissimi, eccoci a Kyoto, la seconda antica capitale, dove il matematico von Neumann voleva far sganciare la seconda bomba atomica, poi dirottata su Nagasaki. A Kyoto ha sede la Nintendo. Qui la prima meraviglia da vedere è l'architettura della stazione, opera di Hiroshi Hara, ricca di stimoli futuristici e divisioni irregolari dello spazio. L'ufficio informazioni ci dirotta al sesto piano della stazione, per la ricerca di un buon ryokan. Quello che ci dànno non è male, ma niente bagno giapponese né latrina in camera, ed è un po' difficile da rintracciare (decisamente, i giapponesi non sanno fare le cartine stradali) anche nei giorni successivi: ogni volta si fanno chilometri girando in tondo finché, a forza di deduzioni e appello alla memoria visiva, riusciamo inaspettatamente ad arrivarci.
Kyoto è brutta come città moderna; niente a che fare con lo splendore avanguardista di Tokyo, ma è ricca di templi e parchi eccezionali. E la splendida torre della televisione, tonda e curvosa, color pastello ché sembra una torta in verticale.
Nishi Hongan-ji.
Ginkako-ji.
Kiyomizu-dera.
Ryoan-ji.

Sanjusangen-do.

Lunedì 27 aprile. Kyoto.
Palazzo imperiale.

Martedì 28 aprile. Nara, Kyoto.
Giardino dei cervi.

Una provvidenziale telefonata ad Anita Luna aveva segnalato l'importanza di vedere a Kyoto il tempio Sanjusangen-do, o Rengeo-in. Quindi, ritorno per tempo a Kyoto (tanto più che Nara, a parte i templi del parco, non c'è più molto da vedere), al quale tempio ci precipitiamo direttamente dalla stazione, ci togliamo le scarpe come richiesto e restiamo esterrefatti. Un lungo corridoio di legno con centinaia di statue di rara bellezza. Ora, Sanjusan significa 33, che è il numero degli spazi tra i pilastri del tempio e poiché il tempio è dedicato a Kannon (la medesima divinità del tempio Sensoji di Tokyo) e poiché dicono che Kannon, con in testa 11 piccole facce e dalle spalle 1000 braccia (ma ne sono raffigurate solo 20 paia perché, tanto, ciascuna mano dà la salvezza a 25 mondi), possa assumere ben 33 diverse forme di realizzazione della sua missione di grazia, e poiché nel tempio di statue ce ne sono 1000, più una centrale gigantesca, tutte di cipresso dorato, ecco che le possibilità di ricevere grazia salgono a 33.033. I vantaggi del politeismo. Sono disposte su nove gradini in modo da poterle vedere tutte. Davanti a loro sono schierate a intervalli 28 divinità buddiste giapponesi, contemporaneamente scorta e discepoli, più i due soliti dei guardiani Fujin, del vento, e Raijin, del tuono. Nel tempio è vietato fotografare, per cui non resta che proporre il rinvio a un albo addirittura dell'Australian National University. Costruite in tempi diversi e da diversi artisti, si differenziano per pochi particolari stilistici. Le statue sono rovinate dal tempo e dagli incendi anche se accuratamente restaurate: quale doveva essere l'effetto scenografico, e quindi sull'immaginario devozionale, quando la doratura era perfetta?

Non resta che da vedere, sempre su segnalazione di Anita Luna, Pontocho, quartiere zeppo di ristoranti e sale da té, con un lungo viale popolato da ciliegi, ahimè non più in fiore, ma la sua parte migliore sta nella zona vecchia, una stradina lunga e stretta lungo il fiume Kamo. I locali sono tantissimi e con prezzi proibitivi perché la loro frequentazione è allietata da geisha e prostitute. Lo visitiamo che è ormai sera ed è bellissimo nella folla variopinta che vi si stipa e nella luce delle lanterne. Alcuni locali hanno ingressi affascinanti nella loro classica compostezza giapponese. Chi ha letto "Geisha" di Liza Dalb sa che l'antropologa americana ha esercitato la nobile arte proprio qui per scrivere "dall'interno" la sua tesi di dottorato.

Al ritorno per il nostro ryokan decidiamo di prendere una strada più breve... con il solito risultato di perderci. Secondo i calcoli fatti da Ingo sulla mappa, bastava uscire da Pontocho in direzione sud e percorrere la stradina che fiancheggia il lungo canale alberato. Sicuramente il calcolo era esatto ma ci succede di superare inavvertitamente la nostra traversa finché, morsi dalla fame, entriamo nel primo ristorante "popolare" che incontriamo. Colpo fortunato. Il locale è angusto, odora di kerosene e nemmeno pare troppo pulito, ma a una seconda occhiata capiamo che è sì povero ma dignitoso. Lo gestisce un vecchio simpatico con il naso a patata. Arredamento solo giapponese, per cui ci si inginocchia o si incrociano le gambe davanti al tavolino. Dopo l'incidente al ginocchio del 1980 (e per la vecchiaia incipiente) Ingo soffre tormenti in quella posizione ma ciò non gli impedisce di gustare l'ottima cena, tutta vegetariana, con un ottimo tofu fresco (mai sospettato che potesse essere così buono). Andare al bagno? non c'è problema: si scalzano le ciabattine, si indossano quelle del corridoio, le si sostituisce con quelle per il gabinetto e poi a ritroso, fino alla sala da pranzo. Il vecchio ci sottopone con sorrisi e aria furba un quaderno che registra i commenti degli avventori. Ci sono scritte in tutte le lingue e tutte sperticano giuste lodi sul locale. Pare che sia uno degli ultimi a fare della vera cucina giapponese popolare ma raffinata e a prezzi stracciati.

Mercoledì 29 aprile. Tokyo.
Tempio Meiji.

Giovedì 30 aprile. Narita, Roma.
Partenza, con rimpianto di non aver visto tutto, di non esser entrati più in profondità. Mattinata frenetica a preparare le valigie, colazione da Stabuck per far più in fretta, poi corsa all'aeroporto. Quale sarà il terminale? Sulla ricevuta del biglietto non c'è scritto. Optiamo per l'1 ma era il 2. Non faremmo in tempo perché siamo già sul filo del time-out del check-in. Per fortuna, riconsegnando i telefonini, ci informano che anche all'1 c'è un ufficio Alitalia dove ci precipitiamo. Ci spiegano che partono contemporaneamente due aerei, uno Alitalia al primo terminale e uno Japan Airlines al secondo, e ci spostano da quello Japan a quello Alitalia. Salvi per un pelo, ma Paola ha perduto la prenotazione del pasto vegetariano. Nell'aereo siamo confinati nella parte interna del blocco di tre sedili, e ci si sgranchisce con difficoltà, per non disturbare troppo il vicino di corridoio, sempre addormentato. Ingo ne ricava un crampo muscolare alla gamba destra (così impara a voler fare il turista coscienzioso che si adatta agli usi locali e si sente in dovere di sedere a gambe incrociate o ginocchioni al tavolo giapponese alla cena di ieri sera...) che lo fa ancora soffrire dopo quattro giorni dall'arrivo.
Miracolo dei fusi orari: il viaggio all'andata è durato 12 ore ma quello di ritorno solo 6... All'arrivo, l'amato caos romano sporco e puzzolente ci coglie impreparati ed è anche dura tornare a casa impiegando più di due ore fra treno e autobus! E non siamo stati in Nipponia che una settimana...

2 commenti:

Anonimo ha detto...

imparato molto

Anonimo ha detto...

La ringrazio per Blog intiresny